Tratto da lavoce.info
DI ALESSIA AMIGHINI, professore associato di Politica economica presso l’Università del Piemonte Orientale e Associate Senior Research Fellow nel programma Asia dell’ISPI
Tra le ragioni dell’alta inflazione degli ultimi mesi, c’è la carenza di componenti elettronici, diventati sempre più rari a causa della globalizzazione della domanda a fronte di una forte concentrazione dell’offerta. Taiwan, infatti, copre oltre due terzi della produzione mondiale.
Dopo circa due anni di carenza di microchip, il 20 agosto scorso il Presidente Joe Biden ha firmato il Chips and Science Act, una nuova legge che prevede l’erogazione di 53 miliardi di dollari all’industria nazionale dei chip, incentivando le aziende a costruire ed espandere la capacità produttiva negli Stati Uniti. Un tentativo di recuperare una leadership tecnologica oggi a serio rischio. Nel 1968 furono proprio gli americani Robert Noyce e Gordon Moore a creare Intel e a lanciare poco dopo il primo microprocessore al mondo, stabilendo una posizione di leadership decennale nel settore dei semiconduttori. Da quel momento gli Stati Uniti hanno mantenuto il loro vantaggio nella produzione di microchip fino a poco più di 20 anni fa, superando il Giappone e il resto del mondo. Tuttavia, dopo il 2000, il settore ha spostato l’attenzione sulla progettazione, l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo, con una concomitante riduzione della spesa in conto capitale (la produzione di semiconduttori richiede un’enorme quantità di investimenti e di input ingegneristici) e l’esternalizzazione della produzione di chip all’estero.
Oggi questo è un chiaro esempio dei rischi a lungo termine delle delocalizzazioni di fasi ritenute erroneamente poco ‘strategiche’. La moda del fabless (aziende senza officine, che hanno scelto la completa esternalizzazione della produzione fisica dei chip) ha portato un numero sempre maggiore di aziende statunitensi di chip a perdere il controllo del processo di produzione, mentre Taiwan ha scelto di concentrarsi proprio su quello per diventare la centrale mondiale della produzione di chip. Poiché Taiwan investe continuamente nel miglioramento della tecnologia di produzione avanzata, gli Stati Uniti hanno perso gradualmente la loro competitività.
Sebbene il fenomeno delle cosiddette catene globali del valore (global value chains, o Gvc), che costituiscono il vero tratto distintivo della globalizzazione del XXI secolo, sia sempre più citato, poco nota è invece tutta la ricerca economica che analizza le caratteristiche e lo sviluppo delle Gvc per capire come funziona il mondo della produzione, dalle calzature agli aerei, dalle batterie ai medicinali. Questi studi mostrano che le catene produttive cross-border non sono semplicemente un modo più efficiente di organizzare la produzione, mantenendo al proprio interno le fasi ritenute core e spostandone altre altrove, arbitraggiando sui differenziali di costo dei fattori produttivi (non solo della manodopera, ma anche dell’energia, delle risorse naturali, del fisco, del rispetto dell’ambiente, e così via). Le catene del valore hanno anche importanti effetti strutturali sull’organizzazione industriale di molti settori (un caso particolarmente interessante riguarda l’automotive): esternalizzare alcune fasi che inizialmente erano svolta dai produttori del bene finale – per esempio, i microchip per il settore dell’elettronica di consumo, i motori per il settore automotive – ha effetti permanenti sulle dinamiche dell’innovazione all’interno di tutto il settore, sulle dinamiche del potere economico tra le imprese all’interno delle catene, e anche sulla geografia della produzione. Per esempio, da questi studi emerge che nuovi centri di innovazione e di sviluppo tecnologico nascono proprio tra le fila dei fornitori delle componenti un tempo ritenute meno importanti, e questi centri si impongono progressivamente come nuovi centri di potere tecnologico all’interno delle catene. Si tratta di un approccio sistemico molto diverso da quello gestionale dell’imperversante supply chain management, che ha per scopo il solo efficientamento delle forniture e della logistica per una singola impresa in relazione ai propri fornitori, ma nulla dice sulle dinamiche settoriali che portano a cambiamenti strutturali della produzione e dell’offerta che si ripercuotono poi a ruota sulle sorti delle singole imprese.
È proprio così che Taiwan è diventata il perno della produzione globale di microchip. Negli ultimi tre decenni, Taiwan ha sviluppato strategicamente l’industria dei semiconduttori come importante pilastro della propria strategia di competitività nazionale. Attuando la propria politica industriale, che prevedeva investimenti in ricerca e sviluppo, e reclutando ingegneri e manager taiwanesi formati negli Stati Uniti, negli anni Ottanta Taiwan ha lanciato il Parco Scientifico di Hsinchu, che alla fine si è trasformato in una centrale di produzione di chip. Al centro di questi sforzi c’era il dottor Morris Chang, presidente fondatore della Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (Tsmc). Sotto la guida del Dr. Chang, Tsmc si concentra senza sosta sulla ricerca dell’eccellenza ingegneristica e dell’innovazione nella produzione di chip. Oggi, la produzione di chip di Taiwan rappresenta il 60 per cento del volume totale del mondo e Tsmc produce oltre il 90 per cento dei chip di punta (definiti come spessi al massimo 7 nanometri). Il Parco Scientifico di Hsinchu è diventato un centro in cui sono strettamente integrate aziende di chip con flussi ascendenti e discendenti, tra cui quelle che si occupano di progettazione, produzione, attrezzature, test e imballaggio.
Solo così si può capire davvero la situazione in cui ci troviamo oggi. In primo luogo, la carenza di chip è dovuta a diverse ragioni: un’enorme domanda di prodotti digitali, di telecomunicazione ed elettronici, gonfiata dalla pandemia, in quanto un numero sempre maggiore di lavori è stato trasferito online o svolto in remoto; al contempo, un’interruzione della catena di approvvigionamento dovuta alle chiusure per frenare i contagi. Poiché il settore dei chip è altamente globalizzato nei consumi ma allo stesso altamente concentrato nella produzione, i componenti, i wafer e i chip finiti sono bloccati nei magazzini a causa delle interruzioni della logistica. Queste interruzioni sono causate anche dalle esercitazioni militari cinesi nello stretto di Taiwan.
Ogni volta che la Cina mette in atto operazioni militari di questo tipo, esse costituiscono un blocco de facto dei porti di Taiwan e possono anche limitare il traffico attraverso lo spazio aereo dell’isola. Tutto ciò rappresenta un avvertimento per Taiwan: Pechino potrebbe imporre un blocco totale sull’isola in qualsiasi momento. Una mossa del genere avrebbe gravi conseguenze economiche non solo per Taiwan, ma anche per il resto del mondo. Si pensi all’impatto del recente blocco di Shanghai, durato circa 100 giorni, con effetti negativi significativi sul trasporto di merci dal suo porto, uno dei più importanti al mondo.
Un blocco comporterebbe una grave interruzione delle catene di approvvigionamento legate a Taiwan, che sarebbe disastrosa per l’approvvigionamento globale di semiconduttori e contribuirebbe certamente alla corsa all’inflazione in tutto il mondo. Le ripercussioni sarebbero molteplici. Si consideri quanto i microchip siano importanti per la produzione di una miriade di beni, compresi quelli che stanno guidando una maggiore digitalizzazione di aziende, città e Paesi e la rapida adozione di fonti di energia verde. Questo scenario di strangolamento della catena di approvvigionamento è particolarmente preoccupante se si considerano i semiconduttori più piccoli e avanzati, per i quali non esistono sostituti al di fuori di Taiwan.
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