Franca Bacchini se n”è andata lo scorso 28 dicembre; aveva quasi 100 anni. Era la decana degli albergatori misanesi e non solo. L’albergo in via Repubblica, ne porta il nome “Franca”. Riportiamo un’intervista del 2013. Attualissima. Lascia tre figli: Mariangela, Sandra e Luciano.
– L’incontro con questa giovane donna di novant’anni (li compirà il prossimo 3 agosto, 2013, ndr) è stato propiziato da un suo genero, Gianpietro (Piero) Piccioni; Giovanni e io, i “curiosi”.
Ci ha accolto con una grande contentezza e ci ha fatto accomodare nella cucina, alla tavola: c’era anche il salotto, ma la Franca non è una da salotto; lei, le cose importanti è stata abituata a trattarle alla tavola, sacro altare intorno al quale girava la vita della gente umile di Romagna. L’ambiente non è molto luminoso anche se la luce è accesa; ci dice che si è bruciata una lampadina e che lei ce l’avrebbe anche, ma non ci arriva a cambiarla. Piero le fa notare che il lampadario è predisposto per tre lampadine, ma che una manca e quindi ce ne vogliono due; ma lei lo zittisce con una frase sibillina: “(…) e già io metto su tre lampadine, una di quelle fa per cento!” Educata a non sprecare, visto che per quell’ambiente la luce di tre lampadine era troppa, una l’aveva tolta.
La voglia di raccontare la sua storia era talmente forte che solo verso la fine della mattinata si è ricordata di chiederci se volevamo qualcosa da bere; il racconto era così importante che anche l’offerta di un bicchiere di vino, sacro emblema dell’ospitalità romagnola, diventava cosa che poteva essere fatta dopo: dopo, prima la cosa importante, poi si poteva pensare all’offerta di un caffè, moderno tarocco dell’antico e più intimo bicchiere di vino.
Apre il suo ‘diario’, una vecchia agenda del 2003 che, abituata da sempre a scrivere nella memoria le cose da fare, era rimasta intonsa. Si siede e chiarisce subito che quella che ha da raccontare non è la sua storia, ma quella di suo padre. Butto l’occhio sulla prima pagina e leggo: “Racconti storici della vita del mio babbo Giuseppe anche per ricordare che è stato il primo a fabbricare la casa a Misano Mare; 1913”.
La calligrafia tonda e ordinata mette in evidenza la frequentazione delle scuole elementari; aveva preso, infatti, il diploma di quinta. La Franca era nata nel 1923 e all’epoca, soprattutto nelle famiglie povere, erano pochi coloro che arrivavano alla quinta; si ricorda ai più giovani che, all’epoca, al termine della seconda elementare gli alunni dovevano affrontare un esame per essere ammessi a frequentare la terza, e molti si fermavano.
“Il mio babbo è nato il 25 luglio 1883. Abitava lì dove era nato, nel ghetto di Marchin (…)”
Per noi che ascoltavamo stupefatti era impossibile non cedere allo stimolo di fare domande sulla sua di vita, ma lei subito ci sgridava invitandoci a non interrompere, perché non era di se stessa che doveva parlare. Da buona azdóra, era lei a dettare le regole.
“Il mio nonno si chiamava Luigi (…) a quei tempi imparare un mestiere era un lusso e toccava solo al primogenito, mio zio Carlo; e così è stato (…) mio babbo costretto a fare i fossi da Verni a mollo nell’acqua per una lira al giorno non prendeva neanche i soldi per comprarsi gli stivali (…)”
Il fatto che Luigi lavorasse in proprio (faceva il calzolaio e, con la moglie, il locandiere) e che Giuseppe non potesse essere indirizzato all’apprendimento di un mestiere, aveva portato Giuseppe a sviluppare quell’ingegno e quella capacità di intraprendenza che ha poi passato a Franca, sua unica figlia. Quello che emerge dal racconto, infatti, è la grande intelligenza del babbo che gli ha consentito di cogliere, tra quelle che gli si presentavano, le opportunità che gli permettevano di lavorare per gente importante e, nei momenti di crisi, di accettare i lavori più umili; è passato, infatti, dallo spalare fango nei fossi a servire nobili e benestanti, da immigrato in Argentina a ortolano, e sempre mettendo a frutto il ricavato dei suoi sacrifici.
Agli inizi del ‘900 Verni, aveva deciso di dividere in lotti le sue terre a mare della ferrovia e il giovane Giuseppe, tornato dall’Argentina, ne comperò uno “(…) su una parte ci costruisco una casetta e sull’altra ci faccio l’orto (…); finita la casa, d’estate l’aveva affittata alla famiglia Tonti, lui era il Segretario Comunale di Misano. (…)”
Io sono nata il 3 agosto del ’23, nella capannina, la casa era affittata ai Trabucchi (facoltosa famiglia veronese); d’estate si affittava e ci si sistemava nella capanna; tutti facevano così; erano sorte già diverse casette; i posti erano tranquilli e il turismo cominciava a svilupparsi; (…) io posso dire che ero una benestante, perché ero figlia unica, il babbo faceva l’ortolano, quella intorno alla casetta era una terra molto buona per gli ortaggi e per annaffiare aveva scavato un pozzo artesiano profondo quarantasette metri e di acqua ce n’era in abbondanza, e la casetta era affittata d’estate; (…) ad attingere l’acqua dal pozzo, che era costato duecento lire, veniva un sacco di gente, ma a noi cosa ci importava, di acqua ce n’era in abbondanza.
Poi la guerra; “(…) il 29 giugno del 1943 bombardano la casetta. Io mi sono salvata riparata dietro al tronco di un gelso; eravamo tornati dal Convento, ero stata alla messa… la casa tutta demolita …il pensiero per i genitori che erano dentro… sono usciti dalle macerie tutti sporchi di calcinacci …si erano salvati… la contentezza!”
La sua voce non dà segni del dramma vissuto: erano usciti vivi, e nemmeno troppo acciaccati.
Di fronte a certi avvenimenti si è sempre impotenti e il fardello che lasciano è molto pesante da portare. Il dispiacere per le cose perdute era grande, ma Franca e la sua famiglia traevano la loro forza proprio dal considerare i beni perduti solo cose; che erano costate lavoro e sacrificio, ma che rimanevano comunque cose… e potevano essere create di nuovo. Franca è una donna che è stata abituata a superare le traversie senza piangersi addosso. I lutti, la perdita dei beni, per quanto dispiacere potessero provocare, non potevano e non dovevano diventare giustificazione per lo scoramento; per cui, parcheggiato nel cuore il dispiacere per le cose perdute, bisognava rimboccarsi le maniche e ricominciare: si era ancora vivi! E Franca e la sua famiglia lo hanno fatto, senza indugio.
Dice la Franca che, dopo la guerra, negli anni cinquanta, si ammucchiavano i soldi col paletto. Certo, è vero, è stato un grande periodo di crescita economica, quello; ma nella sua umiltà non dice che era il lavoro, la fatica, il sacrificio, che glieli portavano davanti a casa: non era il vento!
Parla in italiano, la signora Franca; ci tiene, perché sente il momento dell’intervista come un momento importante, quindi vuole dare il meglio che ha, come quando, in onore degli ospiti, si apparecchia la tavola con il servizio buono e si mette la tovaglia ricamata. Ma quando racconta un fatto che non le è piaciuto ecco che l’italiano si fa troppo formale e ricorre al dialetto: “(…) l’éva chèmpre cla casèta dó ch’ui è e’ Turing adés (l’Hotel Touring), ui ha fat fè e’ disègn e pó ula à vandù ma Cecco purèt; ula à paghé tré méla frènch (…) ui la à fata paghé vintidó méla frènch! Stal ròbe lin va bèn!”
Ma quella volta… azzarda Piero “Mò che cla vòlta… perchè l’éva fat e’ disègn? Mò cus cla valeva! L’éra che ma la su ma ui pisiva e’mèr!”