Tratto da lavoce,info
DI PAOLO BALDUZZI, è stato membro della Commissione tecnica per la revisione della spesa guidata da Carlo Cottarelli
E CHIARA MINGOLLA, research Assistant presso lavoce.info.
Nonostante gli scarsi risultati del passato, con l’avvio del dibattito sulle riforme istituzionali, si torna a parlare di Commissione bicamerale. Ma quali istituti si intendono riformare? E che cosa ci può insegnare l’esperienza degli altri paesi europei?
Verso una nuova Bicamerale?
A pochi mesi dall’inizio della XIX legislatura, si surriscalda il dibattito sulle riforme istituzionali. Addirittura, si prospetta l’eventualità di riesumare la Commissione bicamerale sulle riforme. Un déjà-vu per molti tra i lettori meno giovani del sito, che sicuramente ricorderanno tentativi analoghi sin dagli anni Ottanta del secolo scorso. Benché la storia insegni che l’esito più probabile di iniziative del genere sia il nulla di fatto, vale la pena di chiarire i termini della questione e, guardando oltre i confini nazionali, cercare di capire che cosa l’esperienza degli altri paesi europei ci può insegnare.
Il primo faccia a faccia tra le donne, e leader, politicamente più potenti e influenti nel nostro paese è avvenuto pochi giorni fa, quando Giorgia Meloni ed Elly Schlein si sono incontrate per discutere di riforme istituzionali. Non si è trattato di un incontro isolato. Il governo ha ricevuto, nella giornata di martedì 9 maggio, le delegazioni di tutti i gruppi parlamentari con l’intento di verificare le disponibilità a mettere mano alla Costituzione. In particolare, per quanto riguarda la forma di governo. Certo, i temi potrebbero essere anche più numerosi. Uno tra tutti, quello dell’autonomia. Ma il nodo principale riguarda proprio il ruolo del presidente del consiglio, i suoi poteri, la modalità di elezione. La maggioranza sostiene la possibilità di elezione diretta, che è compatibile con il presidenzialismo o il cosiddetto premierato, parzialmente con il semi-presidenzialismo, ma di certo non è compatibile con il modello attuale che prevede la nomina del presidente del consiglio da parte del Presidente della Repubblica e la necessità che il Parlamento esprima un voto di fiducia. Al contrario, Movimento 5 stelle e Partito democratico, i principali partiti dell’opposizione sembrano orientati solo a un possibile rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio, sul modello del cancellierato (che prevede la cosiddetta “sfiducia costruttiva”). Quasi tutti concordano, tuttavia, sul fatto che “le riforme non si fanno a colpi di maggioranza”, un’affermazione che fa concorrenza alla “sparizione delle mezze stagioni”, e che costituire una commissione bicamerale ad hoc possa essere una buona idea.
Una storia di insuccessi
La storia italiana insegna che, se mai fosse una buona idea, l’istituzione di una commissione bicamerale lo sarebbe esattamente per il motivo opposto a quello più ovvio, cioè per far fallire qualunque tentativo di riforma.
La prima grande debacle arriva nel 1983, quando l’attività della prima commissione bicamerale istituita dal Parlamento, che prendeva il nome dal deputato Aldo Bozzi, si concluse senza alcuna decisione sostanziale. La commissione, composta da venti deputati e venti senatori, si concentrò soprattutto sul dare piena attuazione a diversi principi costituzionali.
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Stesso destino, un decennio più tardi, spettò alla commissione bicamerale De Mita-Iotti, presieduta dal democristiano Ciriaco De Mita e, dopo le sue dimissioni, dall’esponente del Partito democratico della sinistra (ex Pci), Nilde Iotti. La commissione approvò un testo di riforma che riguardava 22 articoli e avanzò, tra le altre, una proposta che prevedeva l’adozione di una forma di governo simile al cancellierato della Repubblica federale tedesca. Per via della conclusione anticipata della legislatura, anche questo progetto si arenò, benché i temi emersi abbiano continuato a suscitare dibattiti e polemiche negli anni successivi.
A concludere la stagione di fallimenti vi è il tentativo della commissione bicamerale D’Alema del 1997. I 70 membri che la componevano si riunirono per 71 sedute e, alla fine, riuscirono a portare in aula un testo concordato. Tra le proposte più importanti vi era l’abolizione del bicameralismo perfetto e la riduzione del numero dei parlamentari. Il risultato? Ancora un nulla di fatto.
Fu solo all’inizio del secolo, cambiando metodo e approccio, che si arrivò a qualche risultato, seppur non sempre indimenticabile. In fin dei conti, quindi, è risultata più efficace la via della riforma costituzionale a colpi di maggioranza col ricorso, a volte, del referendum confermativo. Nei quattro casi in cui il referendum è si è svolto (2001, 2006, 2016 e 2021), ha confermato la riforma la metà delle volte (la prima e l’ultima).
Cambiare che cosa?
L’obiettivo principale della nuova stagione di riforme costituzionali sembrerebbe riguardare il ruolo, i poteri e la modalità di elezione del presidente del consiglio. Tuttavia, il programma del centrodestra, cioè la coalizione vincente alle ultime elezioni, prevedeva solamente – si fa per dire – l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, senza argomentare se questo implicasse un vero e proprio passaggio al presidenzialismo, una forma di governo per cui il capo dello stato è anche capo del governo.
Se si guarda alla geografia istituzionale europea (si vedano il grafico e la tabella allegati), la situazione risulta molto variegata. In Europa, solo Cipro applica il presidenzialismo. Il conto sale a quattro paesi, se si aggiungono tre stati transcontinentali: Bielorussia, Kazakistan e Turchia. In alcuni stati, come Francia, Portogallo e molti paesi dell’Est (nonché la Russia), è previsto il semi-presidenzialismo, cioè l’elezione diretta del presidente della repubblica, che però non corrisponde al capo del governo (che comunque viene nominato dal primo).
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La maggior parte dei paesi europei prevede forme più o meno forti di parlamentarismo, per cui il presidente del consiglio riceve un voto di fiducia da parte delle assemblee elettive (i parlamenti), salvo qualche rinforzo, come nel caso del cancellierato (ad esempio, in Germania), dove un capo del governo non può essere sfiduciato se non esiste un’alternativa (cosiddetta “sfiducia costruttiva”).
Si parla infine di premierato quando è prevista l’elezione diretta del capo del governo, che però non corrisponde al capo dello stato. Una modalità spesso associata, ma erroneamente, al caso britannico. Si tratta quindi di un caso che non è presente nello scenario europeo.
Vale infine la pena di ricordare che in Europa resistono numerose monarchie parlamentari. E, a giudicare dalla copertura mediatica e dalla partecipazione popolare all’incoronazione di re Carlo III d’Inghilterra, si può affermare che la corona mantenga sempre il suo fascino, nonostante tutto.
Cosa succederà?
Difficile prevedere che cosa succederà, ovviamente. La storia insegna che le riforme condivise difficilmente vedono la luce. Invece di avventurarsi in ardite previsioni, risulta più interessante chiedersi se la forma di governo sia in qualche modo correlata a livelli di democrazia.
Per farlo, è possibile guardare al Democracy index proposto dall’Economist. Il risultato è che ogni regime politico porta buoni e cattivi esempi di democrazia: il semipresidenzialismo in Francia sembra produrre risultati migliori che in Russia, così come il parlamentarismo in Germania e in Ungheria o il presidenzialismo negli Stati Uniti e in Turchia. A conferma che la forma di governo non è né la prima né tantomeno l’unica determinante del grado di democrazia di un paese.
Nel 2023 la Costituzione compie 75 anni. Si tratta di un documento ancora attuale, ma ben lungi dall’essere quella carta perfetta che molti si ostinano a difendere. Che si possa riformare, quindi, non è un tabù. Tuttavia, per la qualità del dibattito e del personale politico spesso coinvolto, anche una nuova stagione di fallimenti potrebbe non essere una cattiva notizia.
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