Tratto da lavoce.info
DI VITTORIO MAPELLI, è stato professore di Economia sanitaria presso l’Università degli studi di Milano
La spesa sanitaria in Italia è inferiore a quella di altri paesi perché più basso è il nostro Pil. Senza crescita economica, le risorse per il sistema sanitario possono arrivare da un recupero dell’evasione, da un aumento delle tasse o da nuovo debito.
Il bersaglio sbagliato
A settembre La pubblicazione della Nadef (Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza) ha suscitato un vespaio di critiche negative, da parte di opinionisti e politici, che confondono la spesa del Servizio sanitario nazionale con il suo finanziamento.
Si è potuto conoscere quest’ultimo dato solo a novembre quando il disegno di legge di bilancio 2024-2026 è stato depositato al Senato. Contro ogni ragionevole speranza, l’articolo 41 del Ddl stanzia 3 miliardi di euro per la sanità, che sommati ai 2,3 deliberati lo scorso anno, fanno 5,3 miliardi in più (+4,1 per cento). Paradossalmente, il finanziamento del disegno di legge (134 miliardi) supera la spesa tendenziale della Nadef (132,9 miliardi), segno che quest’ultima è poco credibile, anche perché quest’anno chiuderà già sui 135 miliardi. Se fosse realmente credibile, il finanziamento del Ddl di bilancio dovrebbe scendere di oltre 1 miliardo. Non meritano, quindi, attenzione i commenti allarmati sulle previsioni di finanziamento del 2025-2026, perché saranno aumentate dalla nuova legge di bilancio 2025, come succede ormai da diverso tempo (si veda la tavola 8 della Corte dei conti con la cronologia dei cambi). A un primo esame, l’incremento dei fondi per il 2024 appare congruo, anche se la base di partenza (il fabbisogno sanitario 2023) è troppo bassa e lascerà qualche deficit da coprire alle regioni.
Quasi tutti i commentatori della Nadef si sono focalizzati sulla percentuale di spesa sanitaria in rapporto al Pil, troppo bassa e in calo (dal 6,6 per cento nel 2023 al 6,1 per cento nel 2026), ma la misura è fallace, perché risente dell’andamento congiunturale del Pil. Se paradossalmente il Pil cade, come nel 2020, l’incidenza sale (al 7,3 per cento) e si raggiunge l’agognata media europea o dei paesi Ocse.
La vera misura è invece quella che considera la spesa sanitaria “pro-capite equivalente deflazionata”: pro-capite, perché la popolazione italiana è in decrescita e con la stessa percentuale di Pil si dispone di più risorse per ogni abitante; equivalente per considerare il peso relativo degli anziani, grandi consumatori di prestazioni sanitarie (secondo il ministero della Salute gli anziani sopra i 65 anni consumano 2,98 volte più delle altre classi 0-64 anni); deflazionata per depurarla dell’effetto congiunturale dei prezzi e confrontarla negli anni.
Se lo stanziamento della legge di bilancio è almeno pari all’incremento delle tre variabili, il fabbisogno di spesa è congruo, perché preserva il potere d’acquisto dei fondi sanitari dall’inflazione (deflatore del Pil) e ogni cittadino che invecchia ha la sua giusta quota di risorse.
Con le informazioni disponibili, si può quindi valutare la congruità del finanziamento: secondo l’Istat la popolazione diminuirà nel 2024 di -0,1 per cento (-29 mila abitanti), mentre l’effetto invecchiamento (l’aumento della popolazione equivalente) peserà per +0,3 per cento (nostri calcoli). Secondo la Nadef, il deflatore del Pil nel 2024 sarà del 2,9 per cento. L’aumento totale delle tre variabili sarà dunque del 3,1 per cento, inferiore all’incremento di bilancio del 4,1 per cento. La differenza dell’1 per cento potrà essere destinata a un aumento delle quantità di prestazioni domandate (negli ultimi anni è stato dello 0,5 per cento) o venire assorbito dai maggiori costi delle prestazioni erogate (ospedaliere e specialistiche) o dal maggiore valore delle prestazioni domandate (per esempio, delle terapie farmacologiche).
Su queste previsioni pesano, tuttavia, le incognite del previsto forte calo dei prezzi dell’economia (deflatore del Pil) e del maggior costo delle prestazioni sanitarie, conseguente al rinnovo contrattuale del personale del Servizio sanitario nazionale (2,3 su 5,3 miliardi stanziati), che potrebbero erodere il residuo 1 per cento. L’adeguamento salariale è un sacrosanto diritto – il contratto dei nostri “eroi della pandemia” era scaduto nel 2018 e il nuovo si ferma al 2021 –, ma risulta improbabile che il più alto costo del lavoro (+5,7 per cento) possa essere riassorbito dalla maggiore produttività del lavoro.
Il rilancio del sistema
Basteranno questi fondi per fare funzionare meglio la sanità pubblica? Finora qui si è discusso dell’incremento dei fondi, ma è allo zoccolo di partenza che bisognerebbe guardare. Il quale risulta molto basso: il finanziamento pro-capite equivalente nel 2024 sarebbe di soli 1.533 euro. È probabile che serviranno per far galleggiare il sistema sanitario ancora un anno, non per un vero rilancio, di cui c’è assoluta necessità. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede investimenti strutturali e tecnologici per 20,2 miliardi di euro, ma le case e gli ospedali di comunità necessitano di almeno 20-25 mila infermieri per poter funzionare e trasformare la sanità territoriale – il vero nodo delle riforme. Alcuni studiosi e politici sostengono che un livello adeguato di spesa per l’Italia dovrebbe essere pari all’incidenza media sul Pil dei paesi Ocse o dell’Ue: al nostro paese mancherebbero almeno 50 miliardi di fondi. La Regione Emilia-Romagna ha avanzato una proposta di legge per impegnare il governo a stanziare 4 miliardi di euro ogni anno, dal 2023 al 2027, per raggiungere l’obiettivo del 7,5 per cento sul Pil entro il quinquennio. Sono proposte irrealistiche, ma è indubitabile che l’opinione pubblica e i partiti sia di governo che di opposizione assegnino oggi un’elevata priorità all’investimento di più risorse nella sanità pubblica.
Tuttavia, le maggiori risorse o si creano o si devono trovare. La via maestra per investire più risorse in sanità è attraverso (i) la crescita del Pil: se l’Italia spende meno di Francia e Germania, come spesso si cita (a sproposito), è semplicemente perché il loro livello di Pil è superiore al nostro rispettivamente del 17 e del 40 per cento. E così si dica per le retribuzioni di medici e infermieri, di professori e insegnanti – che noi tutti vorremmo guadagnassero di più. L’Italia potrà permettersi quel livello di spesa e di retribuzioni se e quando raggiungerà il loro Pil pro-capite. Più crescita economica significa più entrate fiscali per lo stato. In assenza di crescita, le risorse si possono trovare attraverso (ii) il recupero dell’evasione e dell’elusione fiscale, che in Italia sono scandalosamente alte o (iii) l’aumento della pressione fiscale: Tony Blair vinse le elezioni del 2001 chiedendo agli inglesi più tasse per portare la spesa del National Health Service dal 5,5 per cento del Pil alla media europea del 7 per cento (dopo la vittoria, lo fece realmente). Altre risorse si possono trovare (iv) riducendo gli sprechi e le inefficienze in sanità, che tutti denunciano come elevate, senza però introdurre misure conseguenti per intaccarle. Da ultimo, attraverso (v) nuovo debito: debito ex ante, previsto dalla legge di bilancio, e debito ex-post creato e sanato dalle regioni sotto il piano di rientro. Ha iniziato il governo Conte, durante la pandemia, con 3,8 miliardi di indebitamento ex-ante nel 2020 (portato poi a 7,3 miliardi), ed è proseguito con i successivi governi Draghi (14,4 miliardi) e Meloni (14,6 miliardi), fino a totalizzare oggi 36,3 miliardi euro. Nel 2024 coprirà ben 9,5 miliardi delle spese del Ssn. Sono le somme degli indebitamenti triennali contenuti nelle varie leggi di bilancio: quello del 2024, ad esempio, è la somma di 5,4 miliardi della legge di bilancio del 2022, di 2,3 miliardi di quella del 2023 e di 1,8 miliardi di quella del 2024. Se da un lato, il trend ascendente preoccupa, dall’altro testimonia l’attenzione di tutti i governi al tema della salute. Servirà tenere bene a mente queste cifre, per usare con responsabilità i soldi presi a prestito.
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