Tratto da lavoce.info
DI GIANNI DE FRAJA, professore ordinario di Economia a tempo parziale presso l’Università di Roma “Tor Vergata” e presso l’University of Nottingham ed è Research Fellow al Cepr.
Il metodo scientifico è prezioso e delicato. Abusarne, anche quando si dicono cose sagge e giuste, crea confusione tra scienza e propaganda, ne riduce il valore, e danneggia così il progresso scientifico. Il caso di uno studio sulla perdita di memoria.
Il legame tra causa ed effetto
In una vecchia barzelletta, il domatore di pulci mette una pulce sul tavolo e le ordina “Salta!”. Quella salta, e il pubblico applaude. “Fa’ il salto mortale!”, e quella fa il salto mortale. Dopo altri due o tre comandi progressivamente più complessi, ognuno eseguito alla perfezione e seguito da applausi, il domatore prende pinzette e forbicine microscopiche e taglia a una a una le sei zampe della pulce. Poi la rimette sul tavolo e ripete gli ordini precedenti, più volte, a volume crescente. La pulce non salta, mai, per nessuno dei comandi. “Deduciamo”, conclude il domatore rivolgendosi al pubblico, “che tagliando le zampe a una pulce, questa diventa sorda”. La storiella forza un sorriso al lettore per l’assurdità della conclusione del domatore, quando esiste una spiegazione alternativa molto meglio allineata con la nostra conoscenza intuitiva e basata sull’esperienza del mondo.
La capacità di cercare continuamente un legame tra causa ed effetto, nonché di stabilirlo rapidamente, ha senza dubbio costituito un enorme vantaggio evolutivo. Un gene che predisponeva i nostri antenati a intuire un nesso causale tra il sentire un ruggito o un ululato e la possibilità di un incontro con un leone o un branco di lupi aveva più probabilità di passare alle generazioni successive e stabilirsi così nel genoma della specie. Certamente, più di un allele alternativo che induce chi lo ha a non scappare sull’albero più vicino, ma invece a riflettere e cercare ulteriore evidenza sulle condizioni metereologiche ed eoliche prima di convincersi che sia proprio un ruggito o un ululato, e non un tuono o il sibilare del vento.
Memoria e buone abitudini
Se intuizione ed esperienza sono utili guide per valutare comuni eventi della vita quotidiana, inducono spesso in grossolani errori quando chi persegue ricerca scientifica si affida loro per determinare causa ed effetto. Gli esempi abbondano. Ne troviamo uno recente nel prestigioso British Medical Journal, acriticamente riportato dalla stampa nazionale, sia in Inghilterra, sia in Italia.
In questo lavoro, un gruppo di scienziati guidati da Jianping Jia e Jeffrey Cummings, rispettivamente con sede a Beijing e Las Vegas, esamina la relazione tra stile di vita e la perdita della memoria sintomatica del progresso della demenza senile. Gli autori studiano circa 30 mila ultrasessantenni e mostrano che chi segue uno stile di vita sano, con una dieta bilanciata, regolare esercizio sia fisico sia mentale, non fuma e non beve e socializza con amici e parenti, ottiene, a distanza di dieci anni, risultati migliori in una batteria di test adoperata per valutare la perdita di memoria. Nonostante lo studio usi il termine “associazione”, che di per sé non sottende alcun nesso causale, il testo trasuda causalità, a cominciare dagli slogan in prima pagina: “una miscela di stili di vita sani può essere necessaria per l’effetto ottimale [di rallentamento della perdita di memoria]”, “anche in individui geneticamente predisposti (p. 1)”; per concludere con la promessa che “il nostro studio sarà utile per chiunque vorrà ridurre il declino della memoria dovuto all’età”, presentando “ulteriore evidenza che la perdita di memoria è potenzialmente influenzabile” (p. 8). Gli autori accennano, seppur in modo vago (“miglioramento della riserva cognitiva, inibizione dello stress ossidativo e dell’infiammazione e promozione dei fattori neurotrofici”), a possibili meccanismi, che, si spiega, “non formano oggetto di questo studio” (p. 8).
Gli economisti, soprattutto quelli che esternano la loro ira alla menzione di inesistenti nessi di causa ed effetto, introducono presto in chi vive con loro il tarlo di questo dubbio. Così ad un’assemblea scolastica con studenti e genitori, mia figlia quattordicenne alza gli occhi al soffitto quando il vicepreside “dimostra” che le assenze “causano” una perdita di rendimento scolastico, utilizzando una presentazione in power point in cui evidenzia la differenza nel voto medio finale alla maturità di due gruppi di studenti, quelli con meno e quelli con più di 30 giorni di assenza annuali. O mia moglie si schiarisce sarcasticamente la voce quando un esperto spiega alla Bbc che “lavorare allunga la vita, come dimostrato dal fatto che chi va in pensione anticipatamente muore, in media, a un’età più bassa rispetto a chi non lo fa”. Altrove si sostiene che il liceo classico fornisce la miglior preparazione per l’università, come “dimostrato” dal fatto che chi studia in quel liceo si laurea prima e con voti migliori di chi ha frequentato scuole diverse. In tutti e tre gli esempi, la condizione che rende validi gli esperimenti biologici e medici, la randomizzazione dell’assegnazione – di un topolino o un paziente – al gruppo che riceve il trattamento (tante assenze a scuola, pensione anticipata, frequenza del liceo classico) o al gruppo che non lo riceve o riceve un placebo è palesemente violata. Stabilire causa ed effetto in questi casi è impossibile per la distorsione da (auto)selezione (selection bias), che Jia e i suoi co-autori elencano tra i sette possibili limiti al loro studio (p. 9). Ma né loro, né i lettori esperti del BMJ, ne approfondiscono le serie conseguenze nel caso in questione.
Sottolineo che la mia critica non è certo dovuta alle raccomandazioni proposte, che ritengo valide, ma al fatto che la spiegazione della memoria più labile in chi non segue i consigli indicati nella ricerca è scientificamente tanto fondata quanto quella del domatore. Come la mancata reazione della pulce agli ordini ricevuti potrebbe essere dovuta a un’improvvisa sordità causata dalla perdita delle zampe, tramite “meccanismi che non formano oggetto dello studio”, così la correlazione osservata nel lavoro del BMJ potrebbe essere dovuta al seguente meccanismo: la perdita progressiva della memoria a cominciare da un’età fra i 65 e gli 80 anni è puramente genetica, proprio come per la corea di Huntington. Questo gene, non ancora identificato, si manifesta inizialmente con eccessivo affaticamento in seguito all’esercizio fisico oppure a quello mentale, dovuto alla socializzazione, alla lettura o alla concentrazione necessaria per giocare a scacchi, a carte o a ma-jong. Gli individui affetti dall’affaticamento tendono sia a ridurre le attività che lo causano, sia a utilizzare alcol e sigarette per attenuarlo. Se questa spiegazione fosse corretta, produrrebbe la stessa associazione osservata da Jia e Cummings, ma renderebbe impossibile “ridurre il declino della memoria dovuto all’età” seguendo lo stile di vita esaminato, esattamente per lo stesso motivo per cui è impossibile attenuare il declino cognitivo e i problemi psichiatrici che colpiscono chi ha ereditato da un genitore la corea di Huntington.
L’assenza, in questo caso, di metodi validi per stabilire o quantificare l’effetto causale di una variabile su di un’altra non giustifica elevare a scienza studi che scientifici non sono; deve invece spingere a cercare metodi migliori. La scienza economica è all’avanguardia in questa ricerca, come riconosce anche la fondazione Nobel, che negli ultimi anni ha premiato studiosi (Esther Duflo, Josh Angrist, e Guido Inbens tra gli altri) per i loro contributi in queste aree. Sherlock Holmes diceva che una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, è la verità. Parafrasandolo, una volta dimostrata l’impossibilità di ogni altra spiegazione compatibile con i dati osservati, quello che resta è la causalità.
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