Tratto da lavoce.info
DI PIETRO ICHINO, economista e già parlamentare
La proposta di uno standard retributivo minimo universale avanzata dalle opposizioni risponde a un’esigenza reale e urgente. Ma non affronta due questioni cruciali: le differenze interregionali di potere d’acquisto e la poca trasparenza della struttura delle retribuzioni.
Lo standard minimo di 9 euro “morderebbe” soprattutto nel settore terziario
Tutte le forze politiche di opposizione tranne Italia Viva hanno trovato un punto di intesa sulla proposta dell’istituzione di uno standard minimo orario generale, applicabile in tutta Italia, pari a 9 euro. Se il progetto diventasse legge, ne deriverebbe la necessità di alcuni piccoli aggiustamenti al rialzo nei minimi tabellari oggi stabiliti da alcuni contratti collettivi nazionali del settore industriale (Confindustria) per la categoria professionale più bassa. Nel settore terziario e nell’agricoltura, invece, gli aggiustamenti necessari riguarderebbero un numero assai più alto di contratti collettivi di settore stipulati dalle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative; e sarebbero aggiustamenti di entità maggiore: numerosi contratti, infatti, anche tra quelli rinnovati negli ultimi mesi, prevedono un minimo tabellare per la categoria professionale più bassa tra i 7 euro e i 7 e mezzo.
La differenza tra i due macro-settori si spiega col fatto che i dipendenti di aziende industriali sono dislocati soprattutto in imprese del Centro-Nord, dove non solo la produttività media del lavoro è più alta, ma è anche più elevato il costo della vita. I dipendenti dei settori non manifatturieri sono invece distribuiti sul territorio nazionale in modo più uniforme: sono dunque, in proporzione, più presenti nel Mezzogiorno rispetto a quelli dell’industria. E al Sud, per un verso, la concorrenza del lavoro irregolare è molto più intensa che al Nord; per altro verso, il costo della vita è mediamente assai più basso.
Uno standard minimo modulato in relazione alle differenze di potere d’acquisto della moneta
L’osservazione proposta aiuta a mettere a fuoco una questione che il progetto delle forze di centrosinistra non affronta, nonostante la sua importanza sia stata più volte sollevata, anche da voci assai autorevoli: la questione degli squilibri interregionali di produttività del lavoro e di costo della vita, che in Italia pesano molto più che in altri paesi.
La soluzione più lineare consisterebbe nell’affidare a un’autorità – quale potrebbe essere il Cnel, visto che nel 2016 abbiamo deciso di tenerlo in vita – il compito di determinare lo standard minimo in termini di potere d’acquisto effettivo, modulandolo sulla base dell’indice Istat del costo della vita locale. Senonché una soluzione di questo genere urta contro un tabù oggi fortissimo in seno al movimento sindacale, secondo il quale “non si possono reintrodurre le gabbie salariali”, abolite più di mezzo secolo fa. Un’altra soluzione potrebbe, allora, essere quella di “sgabbiare la contrattazione collettiva” consentendo ai contratti aziendali o territoriali – purché stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi – di adattare lo standard minimo alle condizioni particolari delle zone dove il costo della vita è nettamente inferiore (zone depresse) o superiore (per esempio grandi centri urbani) rispetto alla media nazionale.
Una cosa è certa: il rifiuto di commisurare gli standard retributivi al costo della vita effettivo nella zona considerata fa sì che i minimi oggi applicati in Italia, espressi in valore nominale della moneta, siano inevitabilmente sbagliati sia al Nord sia al Sud: al Nord perché troppo bassi, al Sud perché troppo alti. Anche la proposta delle forze di opposizione soffre di questo grave difetto.
C’è poi un’altra questione che dovrebbe essere affrontata e risolta incisivamente, perché lo standard retributivo minimo orario possa essere efficace: quella della trasparenza dei compensi, che nel nostro paese è gravemente ridotta da una struttura salariale estremamente complessa, cui conseguono gravi difficoltà nel confronto tra le paghe.
La questione della trasparenza della retribuzione
In Gran Bretagna, se il salario minimo orario per una persona adulta è fissato a 8 sterline, e un’azienda paga un dipendente 7 sterline, tutti sanno immediatamente che quell’azienda sta violando la legge. Se la stessa norma si applicasse in Italia, invece, l’azienda potrebbe essere in regola oppure no. Perché la struttura delle paghe in Italia è, nella maggior parte dei casi, poco trasparente, per via delle numerose voci di retribuzione differita o indiretta: così, quell’azienda potrebbe essere in regola, oppure no, a seconda che il contratto preveda o no la tredicesima e la quattordicesima mensilità, preveda o no l’incorporazione nella paga diretta dell’accantonamento per il trattamento di fine rapporto, preveda o no forme di retribuzione in natura o contribuzione a schemi welfare aziendale. Poiché ciascuna delle voci di retribuzione differita menzionate pesa intorno al 7 per cento della retribuzione diretta, il solo fatto che siano previste fa aumentare la retribuzione effettiva di un importo che può arrivare fino al 20 per cento; altrettanto possono incidere le forme di retribuzione indiretta, per le quali occorrerebbe introdurre una forma di evidenziazione nella busta-paga che consenta di valutarne immediatamente l’entità. Le norme che si applicano, in un paese, a decine di milioni di persone sono efficaci se sono semplici da capire e da applicare; sono molto meno efficaci se per applicarle è indispensabile rivolgersi a un esperto.
Nei paesi anglosassoni e in quelli del Nord Europa la tecnica protettiva imperniata su uno standard retributivo minimo orario (hourly minimum wage) è efficace perché chiunque può capire da solo se la somma che paga o che percepisce rispetta lo standard minimo. In Italia, se mai questa tecnica protettiva verrà adottata dal legislatore, sarà meno efficace, almeno fino a che la struttura delle nostre retribuzioni continuerà a essere imbarocchita dalla previsione (talora, come nel caso della tredicesima mensilità, risalente a norme corporative) di svariate forme di retribuzione differita che impediscono la trasparenza e la comparabilità immediata dei trattamenti economici. È vero che queste complicazioni normative sono ormai tutte derogabili in sede di contrattazione collettiva; ma non sembra che quest’ultima sia orientata nel senso di una armonizzazione della struttura delle retribuzioni italiane rispetto agli altri paesi europei maggiori.
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