Alla fine del XIX secolo, sulla spinta dei nazionalismi europei e dell’acuirsi dell’antisemitismo, un giornalista austroungarico Theodor Herzl, teorizzò l’ideologia sionista che propugnava il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico e ipotizzò come sua ultima destinazione il territorio palestinese.
Dopo la Prima Guerra mondiale la Società delle Nazioni, l’attuale ONU, assegnò per mandato i territori dell’ex impero ottomano alla Francia e all’Inghilterra. Alla Francia spettò il protettorato della Siria e del Libano e all’Inghilterra quello della Giordania, dell’Iraq e della Palestina.
Nel periodo antecedente la Prima Guerra mondiale si assistette già all’insediamento di coloni ebrei in Palestina ma, quando l’Inghilterra assunse il controllo del suo territorio, il loro numero crebbe vertiginosamente.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando i coloni ebrei rappresentavano già oltre il 30% della popolazione stanziale, l’Inghilterra, impegnata nella ricostruzione postbellica, decise di rinunciare al mandato assegnatole dalla Società delle Nazioni e lasciò nelle mani dei palestinesi e degli ebrei il destino del territorio. La decisione fu accolta con favore dagli ebrei, ma i palestinesi, che si erano opposti per anni alla migrazione degli ebrei europei, la rigettarono.
Nel 1948 la dichiarazione dell’indipendenza dello Stato di Israele ha dato il via ai conflitti che tutti conosciamo. Al termine del primo conflitto arabo israeliano, nel 1949, la Stato di Israele già occupava il 78% del territorio palestinese. Rimase fuori la Cisgiordania e la striscia di Gaza, occupate rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto.
Durante quel conflitto circa 800.000 palestinesi abbandonarono le loro case per paura delle ritorsioni dell’esercito israeliano; quest’esodo forzato segnò l’inizio dell’ancora irrisolto problema dei rifugiati palestinesi.
Oggi i rifugiati sono quasi sei milioni, ospitati soprattutto in Siria, Libano e Giordania, l’unico Stato ad avere riconosciuto il loro diritto di cittadinanza.
La questione dei rifugiati è un altro “cuneo” nell’ingranaggio della soluzione del problema regionale. Gli israeliani temono che il loro ritorno modifichi drasticamente la demografia del territorio, con un notevole aumento della presenza araba e con tutte le conseguenze politico sociali che ne conseguono.
Dal 1948 é stato tutto un susseguirsi di conflitti sempre più aspri, fra i quali quello del 1967, ribattezzato la “guerra dei sei giorni” che permise ad Israele di occupare anche la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, sottraendole all’Egitto e alla Giordania, che, insieme alla Siria, furono sconfitte nella guerra. Dopo la sconfitta nella “guerra dei sei giorni” i Palestinesi sposarono un maggiore attivismo politico che vide la confluenza di molti gruppi politici nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, meglio nota come OLP.
Nel tempo, esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie ambizioni indipendentiste, si sono succeduti momenti di lotta, fra cui le intifade, che a lungo andare hanno favorito l’istituzione di movimenti radicali; Hamas dal 2007 governa Gaza dopo una breve guerra civile contro i fedeli dell’OLP.
La striscia di Gaza, abitata da più di due milioni di esseri umani, con un tasso di disoccupazione di circa il 50% e con il 65% delle famiglie a rischio d’insicurezza alimentare, è sottoposta al blocco totale dei valichi terrestri e degli accessi via mare. La totale chiusura dei valichi rende impossibile sviluppare una attività economica per la quale è necessaria il libero accesso agli imput esterni. Se non ci fossero gli aiuti umanitari mancherebbero anche i beni di prima necessità, che vengono prodotti ad intermittenza a causa dei blocchi alle frontiere.
Gli insediamenti dei coloni israeliani nei territori occupati, benché siano considerati illegali dal diritto internazionale, continuano ad essere realizzati e protetti dalle forza militari israeliane.
Nei territori palestinesi l’opera di prospezione per realizzare un pozzo d’acqua necessita dell’autorizzazione delle autorità israeliane, che controllano anche tutte le opere infrastrutturali che portano “l’oro blu” nei territori abitati dai rifugiati palestinesi; questi ultimi hanno diritto a circa 70 litri al giorno rispetto ai 280 dei cittadini di Israele. Un vero e proprio water grabbing.
Fermiamoci qui per non appesantire ulteriormente l’articolo di dati, ma credo che quanto scritto certifichi senza ombra di dubbio, come sia difficile per chiunque sopportare questi enormi disagi, senza nessuna certezza per il futuro per sé e per la propria famiglia.
Le mancanze di opportunità sono il terreno di “coltura” dell’odio e dell’adesione al radicalismo islamico, non per convincimento religioso ma per necessità: Hamas, servendosi di finanziamenti provenienti dal mondo arabo assicura anche servizi caritatevoli ai rifugiati. Purtroppo, diciassette anni di disagi hanno alimentato a dismisura l’odio verso gli israeliani. Odio che si è materializzato negli efferati e spaventosi attentati di cui siamo a conoscenza.
Sono e sarò sempre contro ogni forma di violenza, ma s’impone una razionale visione di una realtà che non cambierà se non assistiamo a strategie politiche diverse. Se si continua con la scontro fra civiltà e non sosteniamo il loro incontro, non si riuscirà a risolvere il problema, che diventerà sempre più violento. Incontro significa disponibilità all’ascolto e, ricordiamoci, la superiorità tecnologica non significa essere superiori intellettualmente.
L’auspicabile confronto non può essere fatto con Hamas: non ha nessun interesse a farlo e mira esclusivamente ad unificare tutte le frange mussulmane estremiste per eliminare Israele, costi quel che costi. Con chi allora? Con la parte moderata del mondo palestinese: se si intavolasse fra le parti un reale progetto di cooperazione per un tangibile sviluppo, ricco di opportunità lavorative, di autonomo sviluppo, le cose prenderebbero un’altra china.
Se si riuscisse nell’intento, la cassa di risonanza del radicalismo islamico si depontezierebbe dal suo interno e, piano piano perderebbe tutta la linfa che lo anima.
La contrapposizione a cui assistiamo in Italia fra sostenitori di Hamas e quelli di Israele, se non sostenuta dalla conoscenza personale della realtà, ricorda molto quei salotti buoni dove si discetta su tutto pensando di avere la soluzione in tasca, avendo però la pancia piena. Lo dico con cognizione di causa: la conoscenza diretta dell’Africa mi ha reso più cauto e più saggio nei giudizi.
Dobbiamo augurarci che questa tragedia porti finalmente ad una pace giusta e condivisa fra due Stati indipendenti.
Dopo la Prima Guerra mondiale la Società delle Nazioni, l’attuale ONU, assegnò per mandato i territori dell’ex impero ottomano alla Francia e all’Inghilterra. Alla Francia spettò il protettorato della Siria e del Libano e all’Inghilterra quello della Giordania, dell’Iraq e della Palestina.
Nel periodo antecedente la Prima Guerra mondiale si assistette già all’insediamento di coloni ebrei in Palestina ma, quando l’Inghilterra assunse il controllo del suo territorio, il loro numero crebbe vertiginosamente.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando i coloni ebrei rappresentavano già oltre il 30% della popolazione stanziale, l’Inghilterra, impegnata nella ricostruzione postbellica, decise di rinunciare al mandato assegnatole dalla Società delle Nazioni e lasciò nelle mani dei palestinesi e degli ebrei il destino del territorio. La decisione fu accolta con favore dagli ebrei, ma i palestinesi, che si erano opposti per anni alla migrazione degli ebrei europei, la rigettarono.
Nel 1948 la dichiarazione dell’indipendenza dello Stato di Israele ha dato il via ai conflitti che tutti conosciamo. Al termine del primo conflitto arabo israeliano, nel 1949, la Stato di Israele già occupava il 78% del territorio palestinese. Rimase fuori la Cisgiordania e la striscia di Gaza, occupate rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto.
Durante quel conflitto circa 800.000 palestinesi abbandonarono le loro case per paura delle ritorsioni dell’esercito israeliano; quest’esodo forzato segnò l’inizio dell’ancora irrisolto problema dei rifugiati palestinesi.
Oggi i rifugiati sono quasi sei milioni, ospitati soprattutto in Siria, Libano e Giordania, l’unico Stato ad avere riconosciuto il loro diritto di cittadinanza.
La questione dei rifugiati è un altro “cuneo” nell’ingranaggio della soluzione del problema regionale. Gli israeliani temono che il loro ritorno modifichi drasticamente la demografia del territorio, con un notevole aumento della presenza araba e con tutte le conseguenze politico sociali che ne conseguono.
Dal 1948 é stato tutto un susseguirsi di conflitti sempre più aspri, fra i quali quello del 1967, ribattezzato la “guerra dei sei giorni” che permise ad Israele di occupare anche la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, sottraendole all’Egitto e alla Giordania, che, insieme alla Siria, furono sconfitte nella guerra. Dopo la sconfitta nella “guerra dei sei giorni” i Palestinesi sposarono un maggiore attivismo politico che vide la confluenza di molti gruppi politici nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, meglio nota come OLP.
Nel tempo, esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie ambizioni indipendentiste, si sono succeduti momenti di lotta, fra cui le intifade, che a lungo andare hanno favorito l’istituzione di movimenti radicali; Hamas dal 2007 governa Gaza dopo una breve guerra civile contro i fedeli dell’OLP.
La striscia di Gaza, abitata da più di due milioni di esseri umani, con un tasso di disoccupazione di circa il 50% e con il 65% delle famiglie a rischio d’insicurezza alimentare, è sottoposta al blocco totale dei valichi terrestri e degli accessi via mare. La totale chiusura dei valichi rende impossibile sviluppare una attività economica per la quale è necessaria il libero accesso agli imput esterni. Se non ci fossero gli aiuti umanitari mancherebbero anche i beni di prima necessità, che vengono prodotti ad intermittenza a causa dei blocchi alle frontiere.
Gli insediamenti dei coloni israeliani nei territori occupati, benché siano considerati illegali dal diritto internazionale, continuano ad essere realizzati e protetti dalle forza militari israeliane.
Nei territori palestinesi l’opera di prospezione per realizzare un pozzo d’acqua necessita dell’autorizzazione delle autorità israeliane, che controllano anche tutte le opere infrastrutturali che portano “l’oro blu” nei territori abitati dai rifugiati palestinesi; questi ultimi hanno diritto a circa 70 litri al giorno rispetto ai 280 dei cittadini di Israele. Un vero e proprio water grabbing.
Fermiamoci qui per non appesantire ulteriormente l’articolo di dati, ma credo che quanto scritto certifichi senza ombra di dubbio, come sia difficile per chiunque sopportare questi enormi disagi, senza nessuna certezza per il futuro per sé e per la propria famiglia.
Le mancanze di opportunità sono il terreno di “coltura” dell’odio e dell’adesione al radicalismo islamico, non per convincimento religioso ma per necessità: Hamas, servendosi di finanziamenti provenienti dal mondo arabo assicura anche servizi caritatevoli ai rifugiati. Purtroppo, diciassette anni di disagi hanno alimentato a dismisura l’odio verso gli israeliani. Odio che si è materializzato negli efferati e spaventosi attentati di cui siamo a conoscenza.
Sono e sarò sempre contro ogni forma di violenza, ma s’impone una razionale visione di una realtà che non cambierà se non assistiamo a strategie politiche diverse. Se si continua con la scontro fra civiltà e non sosteniamo il loro incontro, non si riuscirà a risolvere il problema, che diventerà sempre più violento. Incontro significa disponibilità all’ascolto e, ricordiamoci, la superiorità tecnologica non significa essere superiori intellettualmente.
L’auspicabile confronto non può essere fatto con Hamas: non ha nessun interesse a farlo e mira esclusivamente ad unificare tutte le frange mussulmane estremiste per eliminare Israele, costi quel che costi. Con chi allora? Con la parte moderata del mondo palestinese: se si intavolasse fra le parti un reale progetto di cooperazione per un tangibile sviluppo, ricco di opportunità lavorative, di autonomo sviluppo, le cose prenderebbero un’altra china.
Se si riuscisse nell’intento, la cassa di risonanza del radicalismo islamico si depontezierebbe dal suo interno e, piano piano perderebbe tutta la linfa che lo anima.
La contrapposizione a cui assistiamo in Italia fra sostenitori di Hamas e quelli di Israele, se non sostenuta dalla conoscenza personale della realtà, ricorda molto quei salotti buoni dove si discetta su tutto pensando di avere la soluzione in tasca, avendo però la pancia piena. Lo dico con cognizione di causa: la conoscenza diretta dell’Africa mi ha reso più cauto e più saggio nei giudizi.
Dobbiamo augurarci che questa tragedia porti finalmente ad una pace giusta e condivisa fra due Stati indipendenti.