Tratto da lavoce.info
DI ALBERTO DALMAZZO,
E SAMUELE POY, ricercatore in Politica Economica presso l’Università del Piemonte Orientale
In Italia si parla poco di edilizia residenziale pubblica. Ma l’offerta di case popolari può incidere sulla qualità della vita di fasce della popolazione e sullo sviluppo economico locale. Almeno è stato così con il Piano Ina-Casa degli anni Cinquanta.
Il piano Ina-Casa
Il tema dell’edilizia residenziale pubblica è da tempo uno dei grandi assenti nel dibattito pubblico italiano. Eppure solo il 4 per cento della popolazione beneficia di alloggi a prezzi calmierati, un terzo di quanti pagano l’affitto a prezzi di mercato si dichiara in difficoltà nel sostenerne il costo e il tasso di disagio abitativo grave è nel nostro paese il doppio rispetto alla media Ue (Housing Europe Observatory, 2019).
Al di là degli aspetti redistributivi, una domanda interessante è se l’edilizia pubblica possa favorire lo sviluppo economico locale. Abbiamo provato a rispondere guardando alla storia del nostro paese nel secondo dopoguerra, in particolare al Piano Ina-Casa, di cui hanno beneficiato diversi comuni tra il 1949 e il 1963. Il Piano, detto anche “Piano Fanfani” dal nome dell’allora ministro del Lavoro che lo propose, prevedeva la realizzazione di alloggi popolari mettendo assieme principi di stampo keynesiano e solidarismo cristiano. Per i fautori dell’intervento, il degrado abitativo era uno dei risvolti inaccettabili della difficile condizione economica vissuta da molti nel periodo post-bellico. Allo stesso tempo, si volevano promuovere opportunità di tipo occupazionale e, non per caso, la legge che istituì il Piano Ina-Casa fu denominata “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori”.
Il Piano era finanziato sia da fondi pubblici che dal contributo congiunto dei datori di lavoro e dei lavoratori, che partecipavano con una piccola trattenuta sul salario (l’equivalente di una sigaretta al giorno, come si diceva allora). Furono realizzati circa due milioni di vani abitativi. È stato calcolato che, in media, 560 famiglie a settimana trovarono un’abitazione grazie al Piano Ina-Casa. Prima, il 40 per cento di queste famiglie aveva abitato in cantine, grotte, baracche e sottoscala, mentre il 17 per cento era stato in coabitazione con altre famiglie. Moltissimi erano gli immigrati dalle campagne e dal Sud. I cantieri coinvolsero città grandi e piccole. Molti quartieri di oggi, come il Tiburtino o il Tuscolano a Roma, nacquero con il Piano Fanfani.
Il contributo allo sviluppo locale
In un nostro recente studio con Guido de Blasio ci siamo occupati degli effetti del Piano Fanfani sui risultati economici dei territori nei quali sono state costruite le case. Dal punto di vista teorico, mostriamo in un modello di equilibrio spaziale cosa dovemmo aspettarci da un aumento della disponibilità di abitazioni. Poiché una maggiore offerta di case attrae nuovi residenti, la più numerosa forza-lavoro locale tende a favorire l’adozione di tecnologie di produzione che utilizzano più intensamente il fattore lavoro. Di conseguenza, è più probabile che nei comuni “trattati” dal Piano si siano avviate attività economiche di tipo manifatturiero, alimentando processi di urbanizzazione e trasformazione produttiva da agricoltura a industria.
Utilizzando le informazioni contenute in una pubblicazione storica del ministero del Lavoro (“Il Piano Ina-Casa Primo Settennio: Gli Artefici” del 1956) abbiamo messo alla prova i risultati del modello teorico. Grazie a tecniche di abbinamento statistico abbiamo confrontato – utilizzando dati censuari Istat – la dinamica (tra il 1951 e il 1961) della popolazione e dell’occupazione per settore di 2.070 comuni in cui furono costruiti gli alloggi del Piano (considerando solo quelli medio-piccoli, in media 2.500 abitanti) con quella di altri 2.032 comuni dove ciò non avvenne. Nel realizzare il confronto, ci siamo assicurati che comuni trattati e di controllo fossero simili per una serie di caratteristiche di tipo strutturale (economiche e di popolazione) precedenti all’avvio del Piano, oltre che per altre caratteristiche che includono l’intensità dei danni della seconda guerra mondiale (approssimata dai bombardamenti aerei alleati), la vicinanza alle infrastrutture di trasporto e i possibili legami localistici con politici influenti dell’epoca.
I nostri risultati suggeriscono che, rispetto ai comuni senza Piano, nei comuni in cui l’offerta di case pubbliche è aumentata grazie al Piano Fanfani la crescita della popolazione è stata più alta (+1,3 punti percentuali nella decade 1951-1961). Inoltre, in queste municipalità, vi sono stati effetti positivi sull’occupazione specie per il settore manifatturiero (+4,5 punti di crescita), mentre l’occupazione nel settore agricolo è diminuita più che negli altri comuni. All’interno del nostro insieme di comuni medio-piccoli troviamo anche che l’impatto sulla crescita della popolazione e dell’occupazione manifatturiera è stato più alto per quelle municipalità che, già prima dell’avvio del Piano, avevano una densità di popolazione relativamente più alta. Quest’ultimo risultato mostra che l’impatto sullo sviluppo economico locale fu ancora più forte dove preesisteva una più ampia disponibilità di forza lavoro.
L’edilizia residenziale pubblica, dunque, può essere un fattore di stimolo allo sviluppo economico dei territori. L’analisi di quello che a distanza di oltre 70 anni dalla sua realizzazione rimane il più grande piano di edilizia pubblica in Italia suggerisce che tale politica abbia contribuito all’urbanizzazione e alla transizione industriale del paese negli anni del miracolo economico.
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