Tratto da lavoce.info
DI RONY HAMAUI, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente di Intesa Sanpaolo ForValue
L’inflazione ha forti conseguenze su consumi, redditi e ricchezza degli individui. Eppure, l’opinione pubblica e i politici si concentrano solo sull’aumento dei prezzi di pochi beni, come la benzina. E guardano con sospetto l’azione delle banche centrali.
Le conseguenze dell’inflazione
In una recente intervista Ben Bernanke, già governatore della Fed, ha affermato: “La differenza tra l’inflazione e la disoccupazione è che la prima colpisce tutti. La disoccupazione, infatti, danneggia in modo grave alcune persone, ma la maggior parte della gente non è personalmente toccata […] L’inflazione, invece, ha un profondo impatto sociale” . In effetti, l’inflazione non è affatto un velo ai fenomeni reali come suggerisce la teoria quantitativa della moneta, ma distorce enormemente la realtà, se non altro perché provoca una sostanziale redistribuzione del reddito e della ricchezza, fra poveri e ricchi, debitori e creditori, salariati e lavoratori autonomi, vecchi e giovani, settori esposti alla concorrenza e settori protetti, paesi sviluppati e non.
La dimensione del fenomeno è molto più rilevante di quanto non venga comunemente percepito, ma difficile da misurare.
L’inflazione agisce attraverso tre principali canali. Il primo riguarda i consumi. Non tutti i prezzi crescono nella stessa misura e non tutti gli individui hanno lo stesso paniere di consumi. L’eterogeneità fa sì che l’inflazione subita dai diversi consumatori sia molto diversa, così come il suo impatto sul potere d’acquisto. Un recente Bollettino della Banca centrale europea certifica come in Europa le classi di reddito più basse spendano oltre il 70 per cento del reddito in beni essenziali (alimentari, casa e utenze) contro meno del 50 per cento delle classi più abbienti. Poiché questi beni sono quelli che finora hanno conosciuto la maggiore crescita dei prezzi, l’inflazione subita dai poveri è stata di due punti percentuali più alta di quella sostenuta dai ceti più benestanti. Una più recente analisi condotta dall’Istat sui prezzi al consumo in Italia stima questo differenziale in oltre quattro punti percentuali in media nel 2022.
Il secondo canale attraverso il quale l’inflazione esercita i suoi pesanti effetti distributivi è quello legato alla formazione del reddito. Salari, pensioni e altri benefici pubblici si adeguano con ritardo e in maniera incompleta all’aumento dei prezzi. Si pensi ai contratti biennali e triennali tipici di molti settori e ai ritardi con cui questi vengono firmati. L’ultimo rapporto Aran, l’agenzia negoziale del settore pubblico, ha mostrato come nel 2022 le retribuzioni della pubblica amministrazione siano cresciute solo dello 0,9 per cento, contro un’inflazione che ha superato il 10 per cento. Mentre il Cnel ha recentemente attestato che oltre metà dei contratti nazionali sono scaduti, in alcuni casi da anni. Infine, il governo ha deciso di rivalutare in maniera totale solo le pensioni fino a quattro volte la minima (2.062,31 euro mensili) e poi di scalare gradualmente il livello di indicizzazione. La capacità degli altri redditi di difendersi dall’inflazione dipende dal loro potere contrattuale e dalla loro posizione relativa.
Il terzo canale attraverso il quale l’inflazione agisce sulla distribuzione sociale ha a che fare con la ricchezza e il livello di indebitamento. È il cosiddetto effetto di Fisher, cioè l’incapacità dei rendimenti nominali delle attività e passività di adeguarsi prontamente all’insorgere dell’inflazione, ovvero la tendenza dei tassi d’interesse reali a diventare negativi. In questa situazione, l’inflazione avvantaggia i debitori e svantaggia i creditori in maniera più o meno sostanziale a seconda dei meccanismi di indicizzazione insiti nei contratti di credito o debito. In linea generale, possiamo dire che i più svantaggiati in termini percentuali sono le classi medio basse, che detengono una gran parte della loro ricchezza in depositi bancari o attività con una scarsa copertura all’inflazione.
Gli anziani soffrono più dei giovani, perché nel corso della loro vita hanno accumulato più risparmi e hanno finito di pagare i mutui contratti. Tuttavia, i grandi beneficiari sono gli stati più indebitati, che grazie all’inflazione riescono a ridurre in maniera più o meno sostanziale i loro debiti. Non a caso quasi tutte le guerre (e anche le pandemie) finiscono con un’iperinflazione. A titolo di cronaca ricordiamo che nel 2020 l’Istat e la Banca d’Italia hanno stimato le attività finanziarie delle famiglie italiane in 4.800 miliardi di euro e le passività finanziarie dello stato assommano a poco più di 3 mila miliardi. Ricordando di quanto oggi i tassi d’interesse reali siano negativi (-6/-10 per cento) si ha un’idea approssimativa dell’ammontare di risorse trasferite da un settore all’altro.
Troppa sottovalutazione del fenomeno
Misurare con precisione gli effetti dei tre canali è tuttavia un esercizio estremamente difficile. In un recente lavoro, la Banca d’Italia ha stimato che l’inflazione nel 2022 ha ridotto il potere d’acquisto delle famiglie di 80 miliardi di euro; le manovre messe in pista dal governo Draghi vi hanno posto rimedio per poco più di 30 miliardi, e sono poi riuscite a sterilizzare il 70 per cento delle più forti disuguaglianze indotte dallo shock inflazionistico sul fronte dei consumi.
Tuttavia, come mostrato in una recente analisi della Banca di Spagna, il canale dei consumi è il meno rilevante dal punto di vista degli effetti ridistributivi dell’inflazione. L’aumento dei prezzi danneggia in maniera molto più rilevante gli individui attraverso il canale del reddito e della ricchezza. Solo i giovani e le famiglie di mezza età, che sono tipicamente detentori di importanti mutui ipotecari, soffrono meno grazie all’effetto Fisher.
In conclusione, come dice Bernanke, l’inflazione ha conseguenze sociali molto importanti e diffuse. Eppure, l’opinione pubblica e i politici, non solo italiani, da un lato si soffermano solo sull’aumento dei prezzi di pochi beni, come la benzina o i generi alimentari, dall’altro tendono a vedere con sospetto l’azione delle banche centrali volte a garantire la stabilità dei prezzi. Il timore di perdere qualche decimo di punto del Pil è ritenuto spesso più grave che tenersi una perniciosa inflazione. Nel gergo dell’economia comportamentale potremmo dire che si tratta di un tipico caso di razionalità limitata. O forse ha ragione Olivier Blanchard nel credere che l’inflazione sia una questione troppo rilevante per essere delegata a organismi lontani come le banche centrali. In fondo, si tratta di una vera e propria lotta di classe tra lavoratori, imprese e contribuenti.
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