Tratto da lavoce.info
Di Chiara Mingolla, laureata magistrale in Economia, profilo Economia e Politiche del Settore Pubblico, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
e Gilberto Turati, professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
La riforma dell’accesso alle facoltà sanitarie non è la “fine del numero chiuso”: mantiene una forma di selezione, ma la sposta alla fine del primo semestre. È ricalcata sul sistema francese. Garantirà un numero di medici adeguato alle necessità future?
L’accesso alla professione medica in Italia
La Commissione istruzione del Senato ha approvato un disegno di legge delega che rivede le modalità di accesso ai corsi di laurea in medicina e chirurgia, odontoiatria e veterinaria. La riforma – se e quando il governo definirà le norme attuative – dovrebbe consentire l’iscrizione al primo semestre di studi a tutti gli aspiranti medici, senza la necessità di affrontare un test di ammissione iniziale. L’unico vincolo, inserito da un emendamento approvato dal Senato, riguarda le capacità di accoglienza degli atenei – inclusi, a rigore, quelli telematici – definita tenendo conto anche dei tirocini.
La riforma che verrà è stata enfaticamente rilanciata dalla stampa come l’abolizione del “numero chiuso” a medicina, ma in realtà è più propriamente una modifica dei criteri di selezione degli aspiranti medici. Per accedere al secondo semestre di studi, infatti, invece del test, gli studenti dovranno superare gli esami caratterizzanti in area biomedica, sanitaria e farmaceutica previsti dagli ordinamenti didattici al primo semestre, svolti secondo criteri uniformi su tutto il territorio. L’accesso sarà, poi, determinato dalla posizione ottenuta dal singolo studente in una graduatoria nazionale. Lo sbarramento resta, ma si sposta in avanti di un semestre. Coloro che non riusciranno a essere ammessi al secondo semestre potranno comunque convertire i crediti ottenuti e utilizzarli per iscriversi a un corso di studi alternativo scelto in precedenza.
Il “numero chiuso” – introdotto ufficialmente dalla legge n. 264 del 1999, dopo un dibattito iniziato già alla fine degli anni Ottanta – è stata l’unica politica adottata per garantire un bilanciamento tra il diritto all’istruzione e la disponibilità di risorse, sia umane che tecniche, necessarie per una formazione adeguata, nonché per rispondere al rischio di una vera e propria “pletora medica” (l’eccesso di laureati rispetto alle esigenze del mercato del lavoro pubblico che aveva caratterizzato gli anni Settanta). Nel corso degli anni, il numero di posti disponibili è aumentato progressivamente (figura 1): si è passati da 7.106 per l’anno accademico 2000-2001 a 20.867 per quello 2024-2025. Parallelamente, è cresciuta anche la partecipazione ai test di ammissione: nei primi anni Duemila, i candidati erano meno di 30mila, mentre oggi il dato è addirittura triplicato; con la riforma della selezione, che potrebbe entrare in vigore a partire dal 2025, il numero di studenti che sceglieranno di intraprendere gli studi di medicina potrebbe essere ragionevolmente più elevato.
Il modello francese
La proposta passata in Senato riecheggia il modello oggi in vigore in Francia. Dal 1971 al 2020, l’accesso alle professioni sanitarie è stato regolato anche oltralpe dal “numero chiuso”. Ogni anno si stabiliva il numero di studenti ammessi alle facoltà di medicina, farmacia, odontoiatria e ostetricia in base alle capacità formative delle strutture universitarie e degli ospedali. L’obiettivo del “numero chiuso” era gestire il sovraffollamento accademico successivo al maggio 1968, quando la legge Faure garantì a tutti i diplomati il libero accesso alle università, provocando un boom di iscrizioni, in particolare nelle discipline sanitarie. Col tempo, però, il “numero chiuso” ha mostrato i suoi limiti. La rigidità del sistema ha spinto, da un lato, migliaia di studenti a trasferirsi all’estero (in particolare in Belgio e in Romania) e, dall’altro, ha contribuito alla creazione di veri e propri “deserti medici” (zone nelle quali nessun medico voleva esercitare), soprattutto nelle aree rurali del paese. Entrambi i fenomeni sono stati acuiti dall’evoluzione dei posti disponibili per i corsi di medicina, che ha toccato il minimo storico tra il 1992 e il 1999, riprendendo a crescere solo negli anni Duemila (figura 2).
Per soddisfare il fabbisogno di medici, nel 2009 è stato così introdotto il Paces (Première Annèe Commune aux Etudes de Santé), un primo anno comune per tutte e quattro le principali discipline sanitarie. Al termine del quale gli studenti dovevano superare un esame altamente selettivo per accedere al secondo anno di studi di medicina. Tuttavia, il Paces non ha funzionato: la difficoltà delle prove escludeva molti candidati, con il risultato che un numero significativo di posti rimaneva vacante.
Per ovviare al problema, nel 2019, una nuova riforma ha abolito il “numero chiuso” a partire dal 2020, sostituendolo con un modello meno rigido, il “numero aperto”. Il cambiamento ha introdotto due percorsi distinti per accedere agli studi sanitari: il Pass (Parcours Accès Spècifique Santé) e il LAs. (Libre Accès Santé). Il Pass riprende il Paces ma con una novità: gli studenti devono scegliere un percorso secondario alternativo in un’altra disciplina, come diritto o economia, che garantisca loro 12 crediti sui 60 complessivi. I migliori passano direttamente al secondo anno, mentre gli altri devono affrontare un esame orale; in caso di insuccesso, non possono ritentare la prova ma possono comunque proseguire nel corso alternativo o provare ad accedere al secondo percorso, il LAs. (Libre Accès Santé). Il LAs. è un corso triennale in discipline non sanitarie, come diritto o informatica, ma con un modulo sanitario integrato. Gli studenti del LAs. possono sostenere l’esame per accedere al secondo anno degli studi sanitari, se soddisfano specifici requisiti, e hanno la possibilità di ripeterlo alla fine di ogni anno, per un massimo di tre tentativi. Circa il 40 per cento dei posti nelle facoltà sanitarie è riservato proprio a questi studenti. In base alle nuove disposizioni, le università stabiliscono annualmente la capacità di accesso al secondo e al terzo anno dei corsi di laurea, basandosi sulle indicazioni fornite dalle Agences Régionales de Santé. Si parla, dunque, di “numero aperto”, ma, come sottolineato dall’allora ministro dell’Istruzione superiore francese, Frédérique Vidal, una forma di selezione persiste, esattamente come nella proposta di riforma in Italia.
Qual è il risultato dei due sistemi di selezione e reclutamento sul numero dei laureati e sulla disponibilità di medici nei due paesi? La figura 3 mostra l’evoluzione del numero di laureati in medicina ogni 100mila abitanti a partire dal 2000. In Italia, è sempre stato superiore ai 10 medici per 100mila abitanti, per poi crescere progressivamente dal 2016, fino a sfiorare i 20 medici per 100mila abitanti. In Francia, invece, il numero di laureati è rimasto pressoché fermo intorno ai 5 medici ogni 100mila abitanti fino al 2011, quando ha iniziato ad aumentare arrivando quasi a 10. Il risultato riflette l’incremento dei posti disponibili Oltralpe, passati gradualmente da 4mila a circa 10mila. In Italia, l’incremento è cominciato nel 2009, con l’espansione dei posti fino a 10mila: è un’indicazione di quello che potrebbe succedere con l’aumento fino a 20mila posti.
Queste ampie differenze nei posti devono essere confrontate con il numero dei medici per abitante (4,1 per mille in Italia, in crescita, contro 3,36 in Francia, stabile) e con la sua possibile evoluzione futura (figura 4). Su questo punto aiuta la struttura per età dei medici nei due paesi (figura 5 e figura 6), che ci dà informazioni sui pensionamenti attesi: i medici over 65 (quelli prossimi alla pensione) in Italia sono quasi un quarto di quelli praticanti (60mila), contro il 16 per cento dei medici francesi (35mila); gli over 55 (quelli che andranno in pensione tra 5-15 anni) sono invece una percentuale simile nei due paesi, circa il 28 per cento in Italia (68mila) e il 25 per cento in Francia (53 mila). Nel caso del nostro paese, l’ondata di pensionamenti prevista rischia di creare una mancanza di medici nei prossimi 5-10 anni ma potenziali eccessi in futuro.
Peraltro, la modifica dei criteri di accesso alle facoltà di medicina affronta solo un aspetto del problema, perché si limita al numero complessivo di medici. Rimangono ancora largamente eluse le questioni legate alla domanda di medici. Infatti, la necessità di nuovi medici non è distribuita uniformemente: alcune discipline, come la medicina d’urgenza, la psichiatria e la medicina generale, mostrano una carenza ben più accentuata rispetto ad altre. Esistono poi disparità territoriali significative, con una richiesta di professionisti particolarmente alta nelle aree rurali e nelle regioni del Sud del paese. Per colmare questi mismatch è necessaria una pianificazione mirata, che spinga i giovani medici a scegliere di lavorare in determinate specializzazioni e territori in cui la domanda è maggiore, così da garantire una risposta concreta alle necessità del sistema sanitario e costruire una rete di assistenza più mirata rispetto alle esigenze dei pazienti.
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