Tratto da lavoce.info
DI MATTEO ORTINO, professore associato di Diritto dell’economia nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli studi di Verona
La direttiva Bolkestein si applica anche ai servizi svolti senza fini di lucro, stabilimenti balneari compresi. In più, i criteri per la valutazione della scarsità della risorsa “accesso alla costa” adottati dal governo non rispondono ai vincoli europei.
La direttiva Bolkestein e le concessioni demaniali
Il tema della liberalizzazione nel settore degli stabilimenti balneari è ancora di stretta attualità, nonostante il fatto che la rilevante legislazione europea risalga al 2006 (la cosiddetta direttiva servizi, o “Bolkestein”) e che le norme costituzionali europee in materia di libertà di stabilimento siano in vigore da svariati decenni.
Per le spiagge, la norma chiave della direttiva è all’articolo 12. I casi disciplinati hanno una duplice caratteristica. In primo luogo, sono casi in cui è eccezionalmente consentito agli stati di subordinare l’esercizio di un’attività economica al previo ottenimento di un’autorizzazione dell’autorità competente (per esempio, le “concessioni” all’utilizzo commerciale di beni demaniali). In secondo luogo, deve trattarsi di casi in cui “il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali”. In tale ipotesi, gli stati devono applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente per individuare a chi concedere l’autorizzazione, che deve avere una durata limitata, non può essere rinnovata automaticamente né può accordare altri vantaggi al prestatore uscente.
Risale a pochi giorni fa la pubblicazione dell’ultima pronuncia giurisdizionale del Consiglio di stato sul tema (n. 03940/2024), in cui si ribadiscono tre punti essenziali: ci sono i presupposti normativi per la concreta applicabilità alle concessioni balneari in Italia della direttiva servizi, e in particolare degli obblighi previsti dall’art. 12. La disciplina nazionale in materia, prevedendo la proroga delle concessioni, si pone in contrasto con la normativa europea e, di conseguenza; l’amministrazione locale competente deve disapplicare la disciplina nazionale e applicare direttamente il diritto dell’Ue, dando immediatamente corso alla procedura di gara per assegnare le concessioni balneari in un contesto realmente concorrenziale.
Ci sembrano opportune alcune precisazioni relative non tanto al contenuto prescrittivo dell’art. 12, quanto al suo ambito applicativo, ossia ai casi in cui la norma vincola le autorità nazionali.
E se gli stabilimenti balneari sono gestiti senza scopo di lucro?
Secondo l’orientamento espresso su questo sito da Fausto Capelli, gli obblighi previsti dall’art. 12, e più in generale la direttiva nel suo complesso, non trovano applicazione se lo stabilimento balneare è gestito senza scopo di lucro. È lecito dubitare della correttezza di tale interpretazione, che ci sembra contraddetta sia da una consolidata giurisprudenza dell’Ue (per esempio, C-281/06, pt. 32-33; C-157/99, pt. 50-52), sia dal Manuale per l’attuazione della direttiva servizi della Commissione (a pag. 10), citato dalla stessa Corte di Giustizia dell’Ue come strumento interpretativo.
Per costituire “servizio” ai fini della direttiva e dei Trattati europei, è sufficiente e necessario che l’attività (svolta fuori da un rapporto di lavoro subordinato) preveda normalmente un corrispettivo economico, conferito da chi fruisce del servizio o da un soggetto terzo (caso 352/85). Il concetto di corrispettivo economico è stato interpretato in modo molto ampio dalla Corte, nel senso che l’attività del prestatore deve essere in qualche modo pagata (anche in natura), senza però la necessità che sia prestata allo scopo di realizzare un guadagno, inteso come utile o profitto (si pensi a un corrispettivo economico che si limiti a coprire i costi).
L’applicabilità della direttiva non viene meno, quindi, per il solo fatto che a erogare il servizio è un prestatore, pubblico o privato, non profit (C-70/95). Affinché gli stabilimenti balneari siano esclusi dall’ambito applicativo della direttiva, non basta l’assenza della finalità lucrativa, occorre che i gestori offrano servizi che non prevedano di regola alcuna forma di corrispettivo economico.
C’è scarsità di spiagge libere?
L’art. 12 prevede l’obbligo per gli stati membri di indire una selezione periodica se il numero di concessioni balneari disponibili è limitato per via della scarsità delle risorse naturali. Chi stabilisce, relativamente alle aree demaniali costiere, che le risorse naturali sono scarse, e sulla base di quali criteri?
In una recente sentenza (C-348/22), la Corte di giustizia dell’Ue ha confermato l’effetto diretto dell’art. 12, e cioè che la sua applicazione da parte dell’amministrazione (per esempio, quella comunale) e del giudice nazionale non è subordinata a un previo intervento normativo dello Stato (per esempio, del legislatore nazionale). Ciò ha due importanti implicazioni: la prima è che la verifica della sussistenza della scarsità delle risorse naturali, presupposto all’applicazione dell’art. 12, può (deve) essere effettuata dalla stessa amministrazione competente e, in caso di controversia, dal giudice. La seconda implicazione è che le medesime autorità, ove accertino che la condizione della scarsità è soddisfatta, hanno il potere (il dovere) di (far) applicare gli obblighi e i divieti previsti dall’art. 12, disapplicando le eventuali norme di diritto nazionale non conformi.
Concentrandoci sulla prima implicazione, la questione è: sulla base di quali criteri le autorità possono o devono verificare la sussistenza della scarsità delle risorse naturali? La medesima Corte riconosce agli stati membri “un certo margine di discrezionalità” nella scelta dei criteri di valutazione. Le autorità (sul piano legislativo, amministrativo o giurisdizionale) possono adottare un approccio generale e astratto, riferito al territorio nazionale nel suo complesso, oppure adottare un approccio caso per caso in relazione alla specifica situazione esistente a livello locale; oppure ancora, una combinazione dei due. La Corte considera quest’ultima opzione, in particolare, come equilibrata, in quanto capace di adeguare alle specificità dei singoli comuni l’attuazione concreta degli obiettivi di sfruttamento economico fissati astrattamente a livello nazionale. La discrezionalità conferita dall’art. 12, in ogni caso, non è priva di vincoli, visto che secondo la Corte i criteri scelti devono comunque rispettare le condizioni di obiettività, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità.
Partita nazionale e partita europea
È sulla questione della “scarsità delle risorse naturali” che negli ultimi tempi si è giocata gran parte della partita legale (e politica) del governo italiano a favore dello status quo. È una partita che si svolge contemporaneamente su due campi, che si intersecano: quello “arbitrato” dal giudice nazionale e quello “arbitrato” dal giudice europeo. In entrambi i campi, le regole del gioco sono europee (in primo luogo, l’art. 12 della direttiva, così come interpretato dalla Corte). Non potendo giocare con regole diverse, il governo sembra oggi destinato a una duplice sconfitta.
In campo nazionale, la recentissima sentenza del Consiglio di stato ribadisce la scarsità delle coste disponibili, già accertata dallo stesso giudice nel 2021 (Cons. stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 17 e n. 18). La sussistenza di tale condizione ai fini dell’art. 12 è quindi ormai un dato non più discutibile in Italia nel prossimo futuro? In sostanza direi di sì. Forse, l’unica ipotesi in cui le aree ancora disponibili potrebbero in realtà non risultare scarse è quella in cui (per legge nazionale o per decisione della singola amministrazione competente, nell’esercizio della discrezionalità riconosciuta agli stati dalla Corte) si applicasse un approccio caso per caso che si concentri esclusivamente sulla situazione esistente nello specifico territorio comunale. Un approccio cioè che prescinda dal dato regionale o nazionale, all’opposto di quanto invece sembra aver fatto il Consiglio di stato nella già citata sentenza di pochi giorni fa. In questo caso, si dovrebbe trattare di un territorio in cui a essere occupata dagli stabilimenti è una piccola percentuale delle aree comunali disponibili di diritto e di fatto per nuove concessioni balneari e attrattive sul piano commerciale.
In campo europeo, la Commissione ha attivato una procedura di infrazione contro l’Italia, per violazione del diritto dell’Ue (in primis, la direttiva servizi) in tema di concessioni balneari (INFR(2020)4118).
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Il governo italiano si è difeso cercando di dimostrare la non scarsità delle risorse naturali. Nella misurazione delle aree ancora disponibili, il governo ha adottato un approccio generale e astratto, considerando tutte le coste nazionali come aree demaniali suscettibili di sfruttamento economico, con l’eccezione delle aree militari e secretate. Alla somma di tali aree è stato poi sottratto il numero di quelle già occupate da stabilimenti balneari, al fine di determinare se le coste rimaste libere a livello nazionale siano “scarse” e quindi il numero di concessioni disponibili sia limitato oppure no. Secondo il governo la quota di aree occupate attualmente dalle concessioni equivale al 33 per cento di quelle disponibili. Il governo sostiene quindi che i litorali italiani privi di stabilimenti balneari a disposizione di nuovi potenziali operatori risultano ancora molti e che di conseguenza non sussiste la condizione di scarsità necessaria a far scattare gli obblighi di cui all’art. 12.
Misure sbagliate
La correttezza della misurazione non pare condivisibile, e non sorprende che sia contestata sotto vari profili dalla Commissione europea (vedi il Parere motivato indirizzato all’Italia del 16/11/2023, nell’ambito della procedura di infrazione). Anzitutto, nella misurazione sono state incluse aree sì libere da stabilimenti balneari, ma di fatto inutilizzabili, come i porti e le aree industriali relative a impianti petroliferi, industriali e di produzione di energia, o difficilmente sfruttabili commercialmente, almeno con la stessa competitività delle spiagge già date in concessione, come le coste rocciose. Secondo il Rapporto spiagge di Legambiente del 2023, nel 2021 il 42,8 per cento delle coste basse sono occupate da concessioni (non solo balneari), mentre un altro 7,7 per cento è inaccessibile per illegalità varie (per esempio, abusi edilizi) o per divieto di balneazione a causa del mare inquinato.
Inoltre, il conteggio del governo non ha deliberatamente tenuto conto né del fatto che nell’esercizio delle loro competenze “in molte regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere oggetto di concessione, che nella maggior parte dei casi coincide con la percentuale già assentita”, né della necessità di considerare l’ambito territoriale dei singoli comuni interessati, a differenza di quanto invece rilevato dal Consiglio di stato (Cons. stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 17).
A nostro avviso, criteri come quelli adottati dal governo per la valutazione della scarsità delle risorse non possono essere ritenuti conformi ai vincoli imposti dalla Corte agli stati membri nell’esercizio della loro discrezionalità. Ciò vale, in particolare, per quanto riguarda le condizioni relative alla proporzionalità e alla non discriminazione. In primo luogo, per essere proporzionati i criteri devono risultare tra l’altro idonei a realizzare l’obiettivo perseguito. Invece, attraverso i criteri scelti dal governo italiano non si riesce a verificare la possibilità effettiva di sfruttare economicamente aree demaniali libere. In secondo luogo, i criteri risultano discriminatori, svantaggiando i prestatori stranieri rispetto a quelli nazionali, visto che gran parte dei litorali nazionali e di quelli più redditizi sono già occupati da operatori nazionali, lasciando eventualmente agli stranieri una percentuale più bassa di coste, per lo più di minore accessibilità per condizioni naturali e quindi di ridotta attrattività commerciale.
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