Rimini rende omaggio a Sergio Zavoli e gli intitola una piazza nel borgo San Giuliano. Presenti la figlia Valentina e la moglie Alessandra, insieme a tanti riminesi.
È stata una cerimonia intensa, partecipata e capace di toccare le corde emotive della comunità. Uno dei luoghi più iconici di Rimini, ovvero la piazza che si staglia tra viale Tiberio e la suggestiva Piazza sull’Acqua, da oggi porterà il nome di Sergio Zavoli, riminese d’adozione e ‘padre’ del giornalismo d’inchiesta. Nel cuore del Borgo San Giuliano, nello spazio adiacente al bimillenario ponte romano, è stata svelata infatti la targa in sua memoria, con la partecipazione della figlia Valentina, della moglie Alessandra, del sindaco Jamil Sadegholvaad e dell’assessore comunale Francesco Bragagni che hanno condiviso con i presenti e gli amici di una vita il ricordo di Zavoli e della sua eredità intellettuale.
I lavori di Zavoli, dai reportage storici alle interviste che ancora oggi risuonano nelle aule delle scuole di giornalismo, hanno tracciato un solco indelebile nella narrazione giornalistica e nella memoria collettiva.
Zavoli iniziò la sua carriera nel secondo dopoguerra alla radio, prima di approdare alla televisione pubblica, dove segnò una rivoluzione con programmi come Il Processo alla Tappa, dedicato al Giro d’Italia, e le sue celebri inchieste televisive. Tra queste, spiccano Nascita di una dittatura (1972), che raccontò l’ascesa del fascismo in Italia, e La notte della Repubblica (1989), una straordinaria serie di interviste inedite che fecero luce sul terrorismo degli anni di piombo.
“Sergio ha dato a Rimini la capacità di raccontarsi – ha ricordato il Sindaco Jamil Sadegholvaad -. Sembra un dato scontato ma non lo è. Prima di Sergio Zavoli la nostra città veniva sostanzialmente raccontata da un occhio esterno, quasi ‘usata’, nel senso di coglierne ogni volta soprattuttto gli aspetti stereotipati. Grazie a Zavoli, alla sua umanità poetica, al suo amore per la città, Rimini stessa ha ‘imparato’, per così dire, a conoscersi meglio e a raccontarsi. Ed è il racconto che ci facciamo ancora di più, amando questa città anche per i suoi difetti e le sue contraddizioni. Questa è appunto una storia di amore e di amicizia. Quindi grazie Alessandra e Valentina, grazie a tutti voi che ne serbate il ricordo, la memoria e ne rinnovate l’eredità intellettuale e morale”.
Amico fraterno di personaggi come Federico Fellini e Tonino Guerra, Zavoli aveva un rapporto speciale con Rimini, città che considerava la sua vera casa, tant’è che scriveva che sarebbe voluto tornare a Rimini per “stare”, per vivere gli ultimi istanti circondato da ciò che amava:
“Perché bisogna morire a casa, sentendo i rumori della tua strada, sapendo che da quella finestra entra odore di mare, contando le ore sui suoni e le luci che sono trascorse intorno a te dall’infanzia, quasi udendo le voci che stagnano nel bar, essendo vivo fino alla fine, insomma sino a quando non senti che queste cose ti lasciano amichevolmente morire.”
Quella di oggi non è stata solo una cerimonia, ma un atto di riconoscenza della comunità verso un ‘figlio’ illustre, a cui ora è intitolata una piazza che continuerà a parlare di lui e delle sue indagini per la verità.
NANDO PICCARI
L’ex vice-presidente della Provincia di Rimini, nonché già segretario provinciale del Pci, Nando Piccari, era uno degli amici riminesi intimi di Sergio Zavoli.
Ecco come lo ha ricordato.
Il primo ricordo che ho di Sergio Zavoli risale al febbraio 1954. Non avevo ancora compiuto sei anni quando un avvenimento sorprese ed emozionò l’Italia intera: un sacerdote, Don Carlo Gnocchi, morendo aveva donato le sue cornee a due giovani non vedenti, il dodicenne Silvio Colagrande e la diciassettenne Amabile Battistello, i quali poterono così acquistare il dono della vista grazie ad un ardito intervento, mai eseguito prima, effettuato dal Prof. Cesare Galeazzi, che se ne assunse la responsabilità nonostante la legge italiana all’epoca lo vietasse e la Chiesa non si fosse ancora espressa a favore del trapianto di organi.
La TV aveva iniziato a trasmettere solo da poche settimane, cosicché la radio deteneva ancora il monopolio dell’informazione via etere, che fuoriusciva non senza un alone di sacralità dagli studi Rai di Via del Babbuino, essendo impensabile che un giornalista potesse costruire il suo servizio per strada, intervistando chiunque.
Una innovazione, questa, che cogliendo l’occasione di quell’evento “inventò” Sergio Zavoli, dando voce allo stupore, alla riconoscenza e alla commozione delle persone comuni, comprese quelle che magari faticavano a parlare correttamente in italiano.
Alla Grotta Rossa non tutti avevano la radio, così mia mamma collocava il nostro apparecchio alla finestra della cucina a piano terra, troppo piccola per accogliere i vicini che ogni giorno accorrevano ad ascoltare estasiati – più d’uno con le lacrime agli occhi – quell’inconfondibile voce empatica, che quasi riusciva a “farti vedere” quanto ti stava raccontando.
Poiché molti commentavano “ma è un miracolo!”, nella mia fanciullesca tontolaggine non avevo affatto capito che Don Gnocchi fosse morto, ma ero convinto che il miracolo l’avesse fatto da vivo e ora lo stesse anzi raccontando lui stesso alla radio, con una voce che mi ricordava quella “microfonata” del predicatore che veniva a maggio dalla città, al seguito della Madonna Pellegrina.
Ricordo la risata di Sergio quando glielo raccontai, molti anni dopo: «Va bene “Socialista di Dio”, ma non fino a questo punto!».
Gli parlai per la prima volta nel 1972, al termine del Consiglio Comunale di Rimini che gli aveva conferito la cittadinanza onoraria. In realtà fu lui a parlarmi perché io, emozionato e incredulo, quasi non riuscii ad aprire bocca quando si avvicinò per complimentarsi con me, avendo saputo che ero il più giovane Consigliere fino ad allora eletto a Rimini. E ricordo che mi diede anche un buffetto sulla guancia.
Come succede ad ogni amicizia, anche per la nostra è impossibile segnare una precisa data d’inizio, preceduta com’era dalla consuetudine a cordiali rapporti per lo più “istituzionali”: gli auguri scritti o telefonici per le festività, il suo messaggio di felicitazioni quando nel 1979 fui eletto Segretario della Federazione Comunista Riminese, il mio nel 1980, in occasione della sua nomina a Presidente della Rai.
Decisiva fu poi l’impennata – diciamo così – del 1982, quando sentii il bisogno di inviargli una lettera di scuse per un inopportuno articolo polemico apparso sul nostro “Settepiù”, la cui redazione aveva preso per buona una frase attribuita a Zavoli da uno scalcagnato periodico locale, che in realtà distorceva strumentalmente quanto da lui dichiarato.
In risposta ebbi una sua telefonata inaspettata, lunga e cordiale, conclusasi con l’accettazione del mio invito a tenere a Rimini, di lì a poco, una pubblica conferenza insieme a Giancarlo Pajetta.
Ero e sono ancora profondamente gratificato dall’avermi Sergio quasi subito cooptato nel drappello dei suoi amici riminesi. «Sei il più giovane dei miei vecchi amici», prese poi a dirmi fra il serio e lo scherzoso. Fino a che, essendosene oramai andati tutti gli altri, la frase era cambiata in: «Sei l’unico dei miei vecchi amici ad essermi rimasto».
A qualcuno che ne abbia solo conosciuto l’autorevolezza espressiva e l’eloquio quasi professorale, Sergio può forse essere apparso un personaggio che, come si suol dire, “stava sulle sue”. In realtà era tutt’altro: affabile, ironico, curioso, perfino timido, come quando al telefono mi chiedeva «ti posso leggere questa mia poesia?»
Essendo entrambi nottambuli, le nostre telefonate – lui a Monteporzio, io a Montefiore – avvenivano per lo più verso mezzanotte, e ogni tanto le impiegavamo a divertirci nel rievocare parole e modi di dire – dialettali o in dialetto “italianizzato” – oggi non più in uso: «Mo non basta di fare tutta quella gnorgna?»; «tam per e fiol de pori sugamen»; «nu taca biloz»; «se te vieni oltre, poi dopo andiamo giù di lì»; «Cus’el tot che sfunez?»….
Fra i tanti ricordi che lui mi ha lasciato, uno continuerà a commuovermi tutta la vita.
Quando dodici anni fa, per uno “scherzo del cuore”, mi ritrovai per qualche tempo in coma, al mio risveglio Sergio, che era rimasto a lungo fuori della rianimazione con famigliari e amici, insistette per entrare a darmi un saluto.
Frastornato com’ero, lì per lì non capii chi fosse quel tipo, bardato… da astronauta, che mi si stava avvicinando. Lo riconobbi dalla voce: «Se volevi fare lo scherzo di andartene prima di me, ti è andata male. Però non si fa così…»