DI TULLIO BUCCELLATO, economista presso il Centro Studi Confindustria
E STEFANO OLIVARI, ricercatore del Centro Studi Confindustria
Le misure protezionistiche verso la Cina producono una riconfigurazione degli scambi, che coinvolge il Vietnam. Il rischio è che non si riduca la dipendenza dell’Occidente da Pechino, né si fermi il rapido avanzamento tecnologico dell’economia cinese.
I dazi sui beni made in China
La Cina è un paese con una manifattura sempre più avanzata che produce beni ad alto contenuto tecnologico, percepito come un concorrente decisamente competitivo da molte economie occidentali. Gli Stati Uniti, come anche l’Europa, tentano di arginare l’ascesa cinese attraverso politiche protezionistiche, specie nei comparti in cui la Cina potrebbe acquisire un primato tecnologico.
Cosa dicono i dati doganali sull’efficacia delle sanzioni? E se i flussi di beni avessero cambiato targa solo perché transitati da altri paesi o prodotti sempre da aziende cinesi e con tecnologie cinesi in impianti fuori dalla Cina? Perché, se così fosse, le sanzioni non limiterebbero né i flussi di beni made in China, né lo sviluppo di tecnologie sempre più d’avanguardia all’interno delle imprese cinesi.
Vietnam: un ponte sì, ma a senso unico
Il Vietnam è forse il paese dell’area Asean più integrato con le filiere Usa e Ue. Si presenterebbe quindi come candidato naturale a sopperire, almeno in parte, l’eventuale calo degli scambi con la Cina. Nel grafo ricopre una posizione intermedia molto vicino alla Cina, ma la distribuzione dei legami con gli altri paesi lo associa al gruppo degli Usa (colore verde della sfera). Si potrebbe quindi concludere che il Vietnam possa essere effettivamente considerato come trait d’union tra Cina e Stati Uniti.
Le merci tendono però a viaggiare solo lungo una direzione. Il Vietnam importa per lo più dalla Cina, che pesa per il 35 per cento (dato 2022, +10 punti percentuali rispetto al 2012) sul totale degli acquisti dall’estero vietnamiti. Seguono altri paesi asiatici: Corea del Sud (18,6 per cento), Giappone (5,8 per cento), Thailandia (3,9 per cento). Per trovare la posizione degli Stati Uniti, bisogna arrivare al quinto posto con una quota del 3,5 per cento. Gli Usa però svettano come primo mercato di destinazione delle esportazioni vietnamite, con una quota pari al 28,6 per cento (nel 2012 era il 16,4 per cento). La Cina, seppure seconda anche come mercato di destinazione, occupa una quota di poco più della metà di quella statunitense (15,3 per cento).
Zoomando sui beni in cui la Cina è il primo esportatore e gli Stati Uniti il primo importatore rispettivamente verso e dal Vietnam, emerge una tendenza (significativa al 90 per cento): se aumenta il numero di sanzioni imposte dagli Usa sui prodotti cinesi, aumenta anche il flusso di prodotti che, transitando per il Vietnam, dalla Cina finiscono negli Stati Uniti (figura 2). Tali prodotti (ferro, acciaio e loro articoli, altri metalli comuni, veicoli, macchinari, per esempio) sono anche quelli più colpiti dalle sanzioni.
Nel 2018 il numero di sanzioni è cresciuto notevolmente determinando un’impennata degli scambi nel 2019 attraverso il flusso “Cina-Vietnam-Stati Uniti”. Quindi, stando all’eccezionale aumento di misure restrittive imposte dagli Stati Uniti nel 2022, non è da escludere che nel 2023 si registrerà un ulteriore incremento del flusso di merci che transitano per il Vietnam.
Il flusso degli investimenti esteri
Oltre ai flussi commerciali, occorre anche guardare agli investimenti diretti esteri (Ide) cinesi verso il Vietnam, che sono quasi triplicati tra il 2013 e il 2022, da 30 milioni di dollari a 87. Gli Ide finanziari, pur non riflettendo direttamente flussi di investimenti diretti nel comparto manifatturiero, potrebbero indicare una propensione cinese al controllo di attività produttive attraverso iniezioni di liquidità. Nel 2022 gli investimenti rappresentavano il 2,3 per cento del totale, dato che appare molto esiguo se raffrontato a quello della Cambogia (64,6 per cento) o di Singapore (29,2 per cento). Infatti, parte degli investimenti transita grazie alla presenza di Singapore, principale hub finanziario dell’area asiatica in cui la Cina è il primo investitore con una quota di quasi il 19 per cento del totale degli Ide nel 2022 (la quota sfiora il 25 per cento aggiungendo Hong Kong). Non solo, la Cina ricopre una quota di oltre il 30 per cento degli Ide verso in Cambogia, rendendo ancor più complesso districare il ruolo di possibili investimenti cinesi verso il Vietnam attraverso la presenza di proprietari cinesi insediati in Cambogia. Peraltro, i dati Unctad mostrano come gli Ide greenfield (destinati alla creazione di una nuova impresa o struttura) diretti in Vietnam siano quadruplicati dal 2010 al 2023. Il contributo in termini di stock totale di Ide nell’area asiatica di Cina (1.817 miliardi di dollari nel 2023) e Hong Kong (1.020 miliardi di dollari) è pari della somma complessiva degli altri otto principali paesi investitori (Usa 690 miliardi; Giappone 509 miliardi; Singapore 494 miliardi; Olanda 327 miliardi; Regno Unito 228 miliardi; Germania 198 miliardi e Svizzera 156 miliardi).
Usare il Vietnam come hub di commercio e produzione per merci dirette verso l’Occidente è particolarmente agevole per la Cina. Oltre alla vicinanza geografica e l’appartenenza alla stessa area di scambi, Cina e Vietnam hanno un’organizzazione politica simile, con una forte pianificazione pubblica. Un articolo su The Economist mostra questa similitudine attraverso sette indicatori, tra cui l’apertura del mercato dei capitali, l’entità degli investimenti e il livello di democrazia.
I limiti del protezionismo
Dall’esempio del Vietnam si possono trarre spunti sulle politiche. Il protezionismo, pur volendo proteggere le industrie nazionali, potrebbe rivelarsi inefficace e controproducente. Il commercio trova modi creativi per eludere le barriere commerciali, utilizzando paesi come il Vietnam come intermediari commerciali o come luoghi dove dislocare imprese controllate. Le politiche protezioniste rischiano di trasformarsi in un onere aggiuntivo per i consumatori costretti a pagare di più i beni finali e le imprese a sostenere costi più elevati dei beni intermedi, dato che i costi lievitano per l’effetto delle barriere tariffarie, per i percorsi più lunghi delle rotte commerciali o delle filiere più complesse. La necessità di soluzioni più sofisticate e una più stretta cooperazione internazionale appare dunque cruciale per affrontare le sfide dell’economia globale.
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