di Gianfranco Vanzini
Nei giorni scorsi un amico mi ha segnalato un articolo apparso su” il sole 24 Ore” dal titolo: “I nuovi dati sul gap salariale fra uomini e donne. Continua a non cambiare niente” di Cristina da Rold.
L’articolo iniziava dicendo:” Quando si dice che le donne ogni mese guadagnano in media meno degli uomini c’è sempre chi alza la mano per obiettare che: ok , ma perché è tanto diffuso il part time fra la popolazione femminile, come se si trattasse di un problema per sé non problematico. In realtà però è la retribuzione media oraria che è più bassa di quella degli uomini.”
E qui a mio avviso la Da Rold si limita a considerare i dati medi e non le tariffe effettive orarie previste dalla Costituzione e dai CCNL che prevedono che, a parità di mansioni da svolgere, la retribuzione sia la stessa. E nei fatti la retribuzione oraria contrattuale è la stessa.
Alla fine di ogni anno, tuttavia, è mediamente vero che la retribuzione percepita dalle donne sia più bassa rispetto a quella degli uomini. Occorre, allora, analizzare attentamente perché questo succede, visto che il fenomeno non è legato alla retribuzione oraria contrattuale.
A fine anno le donne hanno percepito mediamente meno degli uomini perché sono meno presenti.
Mi spiego. Nei giorni scorsi venendo a casa in auto, ho visto una mamma che camminava sul marciapiedi spingendo con una mano un passeggino con dentro un bambino/a e con l’altra mano teneva una borsa della spesa. Mi è venuto subito un pensiero: il marito di questa donna in questo momento sta lavorando e alla fine del mese percepirà uno stipendio superiore a quello della mamma che, anziché lavorare fuori casa, cura la propria famiglia e ha appena fatto la spesa per tutti.
Non è vero che in quel momento quella mamma “non sta facendo niente” come rilevano le statistiche medie ufficiali, sta lavorando alacremente per la propria famiglia. Purtroppo questo lavoro non le viene adeguatamente riconosciuto.
Ecco dove nasce il problema. Lavorando sui dati medi non si arriva da nessuna parte, infatti l’articolo succitato non arriva a nessuna conclusione concreta.
Poiché questo tema mi appassiona da molti anni provo a fare la mia analisi e la mia proposta.
Partiamo dal concetto di uomo e donna ovvero maschio e femmina. Non c’è dubbio che queste due realtà siano molto diverse tra loro, complementari e diverse. La differenza più macroscopica sta nel fatto che le donne partoriscono e allattano i figli, i maschi invece no! (Lasciamo perdere la facile e banale battuta che possono farlo usando il latte artificiale).
Dal momento in cui una ragazza sa di essere in attesa di un figlio, il suo orizzonte cambia, di solito in meglio, è felice e contenta di dare alla luce un nuovo essere umano.
Sa anche, da subito, che questo nuovo “soggetto” avrà bisogno di attenzioni, di cure, in sintesi di tempo. Le darà certamente grandi gioie e soddisfazioni, ma richiederà anche del tempo che ovviamente, non potrà essere dedicato ad un lavoro esterno.
Problema serio, complesso e di non facile soluzione. Come conciliare infatti queste due esigenze entrambe importanti e meritevoli del miglior compromesso possibile?
A mio avviso c’è una sola possibilità di risoluzione equa e percorribile che ha due aspetti.
Primo, per allevare dei figli serve del tempo da dedicare loro. Fin che sono piccoli tempo soprattutto della mamma e, allora, facilitiamo per le mamme che lo desiderano, la possibilità di lavorare part time.
Secondo aspetto: riconoscere la peculiarità e l’importanza del lavoro della donna madre, la cui funzione è insostituibile, e valorizzare questa sua funzione riconoscendo un giusto compenso per il lavoro che svolge a vantaggio della famiglia, della società e come valido contrasto alla denatalità incombente.
E’ sufficiente che il tempo che la mamma dedica alla famiglia venga adeguatamente riconosciuto e retribuito e le medie diventano molto più vicine, si attenua e si chiarisce il divario (Gap) fra le due situazioni e si compie un concreto atto di giustizia verso le donne.