– Sono trascorsi 60 anni da quei terribili giorni di guerra dalle nostre parti, da quei momenti in cui la guerra ci ha toccato da vicino, è entrata nelle nostre case, nelle nostre comunità paesane.
Prima la si sentiva raccontare dai giornali, dalla radio (chi l’aveva la radio), dai cinegiornali, con notizie avvolte di retorica, di frottole e di prosopopea. Ce le ricordiamo ancora quelle notizie che volevano essere esaltanti e ci propinavano invece il prologo di una tragica realtà.
Lo scoppio della polveriera di Montecchio. Era la sera del 21 gennaio del ’44, potevano essere circa le otto e noi, io con i miei genitori, stavamo in casa, a Cattolica, attorno ad una stufa dopo aver mangiato. La cucina quell’inverno l’avevamo portata al piano di sopra. Nella camera attigua già dormiva la mia sorellina Adriana che aveva poco più di tre anni.
Ad un tratto uno scoppio spaventoso fece balzare in mezzo alla cucina la tavola di legno messa contro l’apertura del camino spento che impediva al freddo di entrare nella cucina. Sembrava che la deflagrazione fosse avvenuta a pochi metri da casa nostra, talmente era potente e la sua durata non fu istantanea ma si protrasse per qualche tempo. I miei si precipitarono a prendere mia sorella nel letto e via giù per le scale. Poi si rimproverarono a vicenda perché si erano dimenticati di me ed erano ritornati a cercarmi e non mi trovavano più; io ero già uscito.
Ricordo che era buio. Mi pare non ci fosse la luna quella notte. C’era un silenzio che faceva contrasto con l’enorme scoppio di poco prima. Non c’era fumo in giro, né alcun bagliore vicino. Noi non potevamo vedere tra le case nella strada di via Brescia ciò che invece si seppe dopo. Di corsa ci precipitammo nel buio cercando di vedere come i gatti al di là della strada nel giardino della Villa Morganti e ci infilammo nel rifugio che mio padre aveva fatto poche settimane prima. Anch’io avevo partecipato alla realizzazione. Era ubicato nel giardino vicino alla strada e accanto alla Villa Caterina. Era uno scavo largo circa un metro e lungo 23 metri e profondo meno di due metri.
Lo scavo lo avevamo coperto con travi corti e robusti messi di traverso, ottenuti dal taglio di grossi tronchi di albero, più la ramaglia con il fogliame e poi con uno spessore di circa mezzo metro di terra messa a cumulo. Avevamo lasciato una porticina con una ripida scaletta da uno dei due lati corti per entrare ed uscire e dall’altro lato una più piccola apertura ottenuta con un pezzo di tubo di eternit per l’aria da respirare nel caso una bomba avesse ostruito l’apertura principale.
Appena arrivammo, arrivarono anche altre famiglie di vicini. Al lume di candela ci si sistemava alla meglio seduti su alcuni mattoni messi a mo’ di pile. Ricordo che la moglie di Mario Beretta, un nostro vicino di casa, era incinta e molto impaurita. La poca luce proveniva da qualche candela che qualcuno si era portato. Per le strade non vi erano le luci pubbliche accese; vigeva “l’oscuramento” e c’era l’obbligo di tenere le imposte chiuse. In casa invece la luce elettrica c’era, anche se le lampadine erano modeste ed economiche. Passò parecchio tempo in un silenzio assoluto. Poi dei passi si sentirono da Via Del Prete, lontana circa 50 metri. Mio padre andò in quella direzione e seppe da un uomo che tornava dall’osteria della Ventena che era scoppiato un qualcosa di molto grosso ma molto lontano. Piano piano, uno per volta, tornammo nelle nostre case.
I giorni seguenti si seppe che era stato lo scoppio della polveriera di Montecchio a seguito di una azione dei partigiani.
A Montecchio il comando di guerra tedesco aveva installato un enorme deposito di armi e munizioni che doveva servire per alimentare il fronte di guerra e la difesa della cosidetta “Linea Gotica”.
Una settimana dopo lo scoppio della polveriera, la mattina del 28 gennaio ’44 noi sfollammo. Ricordo che Natale Piccari, il babbo del mio amico Gigio, ci venne a prendere con il carro agricolo tirato da due buoi di buon mattino. Era una giornata di sole, anche se fredda ed in pieno inverno. Caricammo sul carro l’armadio, il comò, una tavola, una stufetta di metallo rotonda con tre tubi di lamiera zincata, il letto dei miei genitori, il mio letto che era una rete con 4 piedi, i materassi ed il vestiario. Quel po’ di vestiario che si aveva. Mia mamma e la mia sorellina erano salite sul carro, accovacciate sul mio materasso piegato come una sedia, contro il comò. Natale e mio babbo procedevano a piedi, a lato del carro, chiacchierando ed io, che mi sentivo già un ometto, mai sarei salito sul carro e me la feci tutta a piedi fino alla Levata.
La Levata era un piccolo luogo di sette case, con tre contadini e quattro possidenti ed è posto a Saludecio, nella parte estrema verso est, in alto su di un piccolo rialzo sopra il torrente Tavollo.
Visto da Saludecio è tutto a levante, da qui il termine Levata, come luogo ove si leva il sole.
Ovviamente non c’era l’energia elettrica alla Levata, ma non c’era nemmeno l’acqua giacché i pozzi o cisterne di rifornimento contenevano l’acqua piovana di scolo dai campi e dalla strada e quella si beveva e si usava per cucinare. Quando per parecchio tempo non pioveva occorreva fare enorme economia ed il bestiame lo si doveva portare ad abbeverare nel sottostante Tavollo, ove rimanevano i cosiddetti “gorg” (gorghi) che dopo l’ingresso dei buoi divenivano una poltiglia fangosa.
L’arrivo fu un evento alquanto fuori dal normale, tutti gli abitanti della Levata ci vennero incontro, tutti volevano sapere, conoscere, avere notizie di Cattolica, anche perché eravamo i primi sfollati.
I miei genitori preferirono non correre più rischi. Quell’anno, ottobre del ’43, non mi avevano mandato a scuola. Avrei dovuto frequentare la 3^ elementare.
Il lento risalire delle truppe alleate lungo la penisola.
Era veramente lento, per noi che vivevamo nell’attesa di essere liberati dal fascismo e dal nazismo, il risalire del fronte angloamericano che, da Salerno piano piano arrivava a Napoli, sostava sul Volturno, prima alla “linea Bernhard”, poi alla “linea Gustav”, con la frenata di Monte Cassino. Roma era stata liberata il 4 giugno ’44 con una offensiva a cui aveva preso parte con valore anche il Corpo Italiano di Liberazione comandato dal Generale Utili.
Dopo la liberazione di Roma, il primo ministro inglese Winston Churchill entrò in contrasto con il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, che voleva condurre la guerra in Italia lentamente e con risparmio di uomini e di mezzi, in considerazione che il fronte italiano, dopo lo sbarco in Normandia del 6 giugno ’44 con cui le armate alleate puntavano direttamente al cuore della Germania, era diventato un fronte secondario: di minore importanza.
Churchill riuscì tuttavia a prevalere ed a lanciare una forte offensiva tutta inglese, e con comando inglese, sulla Linea Gotica, a partire dal 25 agosto del ’44.
Egli scese personalmente fra le truppe canadesi attestate sulla riva destra del Metauro a poca distanza da quelle tedesche.
Dopo aver attraversato questo fiume nella notte, 5 giorni dopo i canadesi erano sul Foglia dove i tedeschi avevano approntato la famosa Linea Gotica.
I canadesi la sfondarono in alcuni giorni.
L’azione cominciò il 25 agosto a mezzanotte attraverso il Metauro ed il 30 iniziarono ad attraversare il Foglia. Il sabato 2 settembre al mattino presto varcarono il Tavollo e calarono nei paesi di San Giovanni, Cattolica e nella parte bassa di Saludecio.
Pochi giorni dopo però il fronte bellico si fermò a Gemmano; il paese si trova su di una altura strategica che domina le più importanti vie di comunicazione dei dintorni. Quivi la battaglia fu di una immensa distruzione e di un cospicuo numero di morti. Gemmano è considerata la Cassino dell’Adriatico. Non restò una casa in piedi in quei dieci giorni di continui bombardamenti aerei, navali e cannoneggiamenti con artiglieria pesante da Montefiore, da Montescudo, da San Clemente, dalle altre zone vicine e dal mare.
In quella terribile estate del ’44, morirono molte decine di migliaia di persone tra soldati e civili.
Mi sovviene di tanto in tanto di quei giovani volontari canadesi poco più che ragazzini che non avevano ancora vent’anni ed erano partiti dal Canada, alcuni anche volontari, per sconfiggere Hitler. Sono morti per noi, in Italia, per liberarci dai fascisti e dai tedeschi.
La moglie di Ernest Hemingway era una famosa reporter di guerra sul nostro fronte, come riporta il Montemaggi nella sua opera. Si chiamava Martha Fellhorn e fu testimone dell’assalto alla Linea Gotica nella zona da Osteria Nuova a Monteluro dopo il Foglia. Le sue pagine brillano di una precisa e puntuale descrizione dei fatti. Nondimeno era una persona piena di sentimenti, alla quale non sfuggiva la intensità del momento e la commozione di fronte alla immane tragedia.
Sue queste righe: “E’ terribile morire verso la fine dell’estate quando si è giovani e si è combattuto a lungo, quando si ricordano con tutto il cuore la casa e chi si ama e quando si sa che la guerra è comunque vinta. E’ terribile, e si sarebbe bugiardi o sciocchi se non si vedesse e non si sentisse tutto ciò come una sventura. In questi giorni la morte di un uomo si avverte più dolorosamente perché la fine di questa tragedia sembra così vicina”.
Questo primo sfondamento della Linea Gotica subì però una grave battuta d’arresto che occupò tutto l’inverno ’44’45 per poter liberare l’Italia.
Rimini fu liberata il 21 settembre del ’44.
A Cattolica, così come nelle altre località rivierasche, i tedeschi avevano fatto tagliare tutte le grosse piante di alto fusto lungo le strade principali ed i grossi tronchi abbattuti li avevano fatti disporre di traverso alla strada, in maniera incrociata, per ostacolare l’ingresso in paese di truppe e di mezzi provenienti da un eventuale sbarco degli angloamericani dal mare.
Sabato 2 settembre ’44 i canadesi, che al mattino presto, ricordo, avevano oltrepassato il Tavollo nella località Levata di Saludecio, nella stessa giornata si spinsero su San Giovanni in Marignano, su Montalbano, nella campagna e nella periferia di Cattolica avanzando celermente anche oltre il torrente Ventena ed il fiume Conca, riuscendo praticamente a chiudere i tedeschi di stanza a Cattolica, la possibilità di una normale ritirata e questi, alla sera del sabato, erano furbescamente fuggiti via mare con delle barche a remi che avevano preso sulla spiaggia, navigando sottocosta fino oltre Misano, approdando tra la località “Brasile” e Riccione, ove avevano le loro linee ancora organizzate. La mattina seguente, domenica 3 settembre, i canadesi entrarono in Cattolica ed i pochi cattolichini che incontrarono li avvisarono della fuga dei tedeschi via mare.
Questi giovani liberatori erano animati da un forte entusiasmo e da un baldanzoso comportamento derivante anche dalla relativa facilità con cui, da circa 8 giorni, conducevano la loro avanzata. Nelle fiancate di alcuni dei loro camion si leggeva la scritta “a mezzogiorno a Rimini”. Purtroppo non fu così. Il fronte si fermò a Gemmano, a Coriano, a San Clemente, a Montescudo. Una intensa battaglia vi fu anche a Riccione nei pressi della chiesa di San Lorenzo ed a Rimini arrivarono solo il 21 settembre, a prezzo di enormi perdite e sotto un diluvio di pioggia che contribuì a ritardare le operazioni degli alleati.
I tedeschi, che si erano visti impotenti ad arginare lo sfondamento della Linea Gotica sul Foglia, riuscirono ad organizzare, grazie all’arrivo di notevoli forze fresche di rinforzo, una seconda “Linea Gotica 2”, chiamata anche “Linea Verde” da Gemmano fino al mare, tra Riccione e Misano e poi una terza linea, cosiddetta “Gialla” o “Linea Rimini”, che correva all’incirca lungo il corso dell’Ausa, sulla sua sponda destra e, per il loro sfondamento, i canadesi impiegarono oltre 16 giorni per poter entrare in Rimini.
Quella di Rimini è ritenuta, dagli storici di guerra, come tra le più terribili delle battaglie d’Italia. Alcuni giorni dopo un quotidiano così definirà l’evento: “Quarantacinquemila morti per pochi chilometri di terreno” ed io aggiungo: in meno di un mese.
Oggi, nel 60° anno della ricorrenza di questi fatti terribili accaduti in casa nostra e nell’occasione di ciò che ancora sta succedendo nel Medioriente e nelle terre delle antiche civiltà della Mesopotamia ove, 6.000 anni di storia di grandi città come Nippur, Akkad, Babilonia, Eridu e l’impronta storica degli Assiri e dei Babilonesi, pare non contino per i contendenti di oggi, penso sia doveroso un momento di riflessione, anche breve, ma intenso, su ciò che è la guerra e sulla immane tragedia che essa ha rappresentato e rappresenta.
di Silvio Di Giovanni