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Home Località Morciano

Felicità: da pecoraio a bifolco

Redazione di Redazione
14 Gennaio 2005
in Morciano
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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– “Cara madre sono molto felice. Le cose stanno migliorando. Sono stato promosso: da pastorello a bifolco” (chi ara coi buoi). Era il 1935. Con queste parole il ragazzino Tullio Becci, 11 anni, si rivolgeva alla mamma, che abitava a Sestino, provincia di Arezzo. E’ un pensiero che contiene la storia dell’Italia. Quella migliore. L’umanità, la voglia di migliorarsi. Insomma, la felicità è fatta da piccole cose, come diceva il poeta romano Trilussa e come ha pensato per tutta la vita Tullio Becci, dal 1955 morcianese d’adozione.
Ha combattuto, accontentandosi: da pecoraio in Maremma, a taglialegna, per finire la sua degnissima carriera di lavoratore come commesso in un grande magazzino di generi alimentari. Accanto una vita fatta da molti interessi e tante letture: scrive poesie, canzoni, conosce a menadito la metrica. Un talento naturale.
Bifolco ha due significati. Quello figurativo indica una persona rozza, un villano. Invece, il sostantivo sta per chi lavora la terra con l’aiuto dei buoi. E Becci racconta una storia commovente, legata alla terra. Ultimo e decimo di una famiglia di una famiglia povera. I genitori non possedevano che una casettina e un fazzoletto di terra che fruttava 10 quintali di grano e qualche mela. Come avveniva in tante famiglie, allora i ragazzini non appena compiuta la terza elementare venivano messi a lavorare: i maschi generalmente in campagna, le femmine a servizio presso ricche famiglie della città. In Toscana i luoghi classici erano due: la Maremma e Firenze. La stessa sorte toccò alla famiglia di Tullio. Che, non appena rubato l’istruzione al lavoro, fu mandato in Maremma a fare il pecoraio. Racconta: “In genere si accudivano le pecore per 2-3 anni. Poi si passava bifolco. Per noi era un grande onore. Aumentava il prestigio e la paga. Una paga misera. Io prendevo 30 lire al mese. Per pagarmi il viaggio io dovevo pagare tre mesi. La miseria era tanta che la nostra valigia di lusso consisteva in una balla nuova, dove riporre le nostre cose. Mentre la strada si rompeva con il pane e le mele, come companatico. C’era chi non possedeva neppure tanto”.
Il ragazzino Tullio teneva tanto a fare il bifolco, che quando sentì che il suo “padrone” aveva passato di grado un amico, e lui no, si intristì e non mangiava. Il proprietario gli chiese cosa non andasse e Tullio raccontò. Gli rispose: “Non ti preoccupare, farò fare il bifolco anche a te”.
Poi la lettera alla mamma: bellissima. La stagione maremmana durava 10 mesi. Dopo la trebbiatura si faceva ritorno a casa per due mesi. Tullio fece questa vita fino ai 17 anni. Facendo ancora carriera: fu promosso buttero. Va le a dire accudiva il bestiame in sella ai cavalli. Dopo la seconda guerra mondiale fa lavori alla giornata: manovalanza occasionale. Mentre d’inverno, da ottobre a marzo, faceva il taglialegna: Maremma toscana, romana, Sardegna. Erano squadre di 4-5 persone che per 4-5 mesi facevano vita dura. Dormivano in casette di legno costruite da sé. Per tetto la terra e per letto un pagliericcio di foglie, con al centro della capanna il focolaio per alleviare il freddo. Le settimane erano segnate la sera del sabato sera quando Becci allietava i colleghi di lavoro con le sue canzoni. Una passione che gli aveva trasmesso il papà. Un uomo modesto che aveva avuto la fortuna, grazie ai preti, di imparare il latino. Oggi, il repertorio del signor Tullio è forte di oltre 600 pezzi. Non solo, ma è in grado di scrivere canzoni e poesie a braccio. E’ sufficiente dargli il tema, conosce perfettamente la metrica classica, cioè tutto quell’apparato tecnico che regola con rigida fantasia la composizione dei versi. Pensare l’italiano in endecasillabe (11 sillabe) gli è familiare.
La carriera di taglialegna finisce nel ’55, anno in cui casualmente approda in Romagna. Lo chiama il signor Foschi che aveva sposato una sua compaesana. Dopo due anni e mezzo trova un altro lavoro, un altro gradino. Un altro grado in più: entra a far parte della squadra facchini di Morciano. Era composta da 12 persone. Lavorava in proprio e come liberi professionisti prestava la schiena a Ghigi e agli altri empori di Morciano. Per quattro anni e mezzo scarica sacchi di grano e farina. Quando trova un lavoro d’oro: commesso dai Fratelli Del Magno. Vi è rimasto per 26 anni fino alla pensione.
Questa per Tullio Becci, vedovo, una figlia, non ha voluto significare meno impegno. Anzi. Ha sempre cercato di dare un valore vero alla vita. E’ molto attivo nel volontariato, soprattutto presso la Caritas morcianese. Quando qualcuno lo chiama corre senza compenso: “Perché dare agli altri una mano aiuta a stare bene e in pace con se stessi”.
Ha sempre coltivato il piacere del canto. Nel ’72 entrò nel coro Città di Morciano. E la canzone ce l’ha dentro, come scrivere in rima. Finora ha all’attivo quattro incisioni, con la partecipazione ad una miriade di trasmissioni televisive sulle reti locali.
Oltre alla poesia, alla canzone, alla lettura, un’altra passione, forse meno nobile l’ha toccato: il braccio di ferro. Categoria medi, ha preso parte a numerose gare, sbaragliando sempre la concorrenza.
L’ultimo pensiero è un parallelo tra il passato e il presente: “Al contrario di quanto si pensa, credo che c’era più invidia durante la miseria che oggi. Adesso ci sono meno pensieri, tuttavia la vita è un travaglio. Io mi appago nell’aiutare gli altri”. Non è che la prosecuzione di quella lettera alla cara madre.

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