di ALBERTO BIONDI
Ogni americano conosce, chi più chi meno, il significato di “dolce vita”. Magari di Fellini non ha mai sentito parlare, ma l’espressione si è ormai radicata così a fondo nel lessico inglese (e internazionale) che chi la utilizza spesso non associa più alcun riferimento al Maestro. Un po’ la stessa sorte toccata ad alcuni aggettivi: “kafkiano”, “proustiano”… richiamano qualcosa anche a chi non ha mai letto “Il processo” o “Alla ricerca del tempo perduto”, perché evocano un idea, un concetto, e tanto basta a farli nostri.
Così, quando l’americano in camicia e cravatta blu ha letto sul Financial Times che “Italy accuses S&P of not getting la dolce vita” (l’Italia accusa Standard&Poor’s di non ottenere la dolce vita), magari non ha pensato a Mastroianni e alla Ekberg nella fontana di Trevi, ma sì alla metafora di un benessere d’altri tempi che oggi appartiene sempre più al mito. Il nostro Paese ha infatti citato la celeberrima agenzia di rating per un rimborso di 234 miliardi di euro (tranquilli, non arriveranno mai) come danno per averci declassato nel 2011 escludendo dalla valutazione il nostro patrimonio artistico e museale. Domanda spontanea: ma allora cosa hanno valutato le calcolatrici di Standard&Poor’s? Alitalia e i pomodori della Terra dei Fuochi? Quello culturale è l’unico bene che ci è ancora rimasto (non preoccupatevi: svenderemo anche quello), ma chiaramente per il mondo della finanza equiparare una colonna del Pantheon o una tela di Tiziano a dei barili di petrolio è solo un gioco aritmetico molto remunerativo.
In una recente dichiarazione, il vice presidente della Provincia di Rimini Carlo Bulletti ha sottolineato come in quei 234 miliardi rientrerebbe anche il tesoro cinematografico italiano e, naturalmente, Fellini. “Per la prima volta il cinema viene posto – in una sede giuridica – nell’empireo canonico dell’arte di tutti i tempi, accanto ai Fori Imperiali e alle ville palladiane. E’ uno sdoganamento storico dal punto di vista più sociale che culturale. […] La seconda riflessione riguarda il rapporto tra il Maestro e il nostro territorio, davanti all’ennesima, clamorosa riprova della ‘potenza’ universale del nome Fellini. L’invito è di pensare in grande e di non continuare ad avvilupparsi nei corto circuiti locali che sinora hanno creato più problemi che opportunità al ‘dispiegamento libero’ di quella forza. Pensare in grande vuol certamente dire la ristrutturazione del Fulgor in corso e la sua trasformazione in Casa del Cinema permanente dedicata a Fellini”.
Come si quantifica il valore economico di un vecchio film capolavoro, o ancor più di un regista che per cause di forza maggiore non esce nelle sale da un po’ di anni? Ristrutturare il suo cinema “simbolo” e trasformarlo nel mausoleo (interattivo) delle sue pellicole è già qualcosa: ottieni uno spazio visitabile che in qualche modo conserva e divulga lo spirito felliniano. Benissimo. Ma come qualsiasi altro prodotto o servizio fa attraverso la pubblicità, anche l’arte si deve promuovere; e le strategie del marketing non funzionano indistintamente quando applicate ad un simile bene. L’arte, anche la settima, “vende”, “produce”, “capitalizza” quando una maggioranza di persone le riconosce un valore. Se manca questo riconoscimento, manca il valore, e affinché sia così c’è bisogno di qualcuno che l’arte la spieghi, la racconti. Per “lanciare il marchio Fellini” come l’amministrazione si auspica, è necessario un retroterra di cultura felliniana che ancora a Rimini non è fiorente. Qualcuno mi deve saper dire il motivo per cui Fellini è un Maestro riconosciuto in tutto il mondo, perché i suoi film sono capolavori dalla regia alla sceneggiatura, sotto un profilo artistico e storico, perché è bene rivederseli. Altrimenti alla Casa del Cinema non metterò piede per il semplice motivo che non ne avrò capito il valore. Durante gli anni della scuola avrei preferito che qualche ora di storia dell’arte o di italiano fosse dedicata a capire Fellini, ma per mille ragioni non è stato possibile. Il mio approccio, come per tantissimi altri giovani, è stato quindi spontaneo, “autodidatta”. Negli ultimi anni qualcosa si sta smuovendo a livello di iniziative pubbliche, il Fellinianno è stato un passo in questa direzione, ma c’è ancora molto da fare specialmente tra le generazioni che, dalla mia in poi, non hanno vissuto Fellini e devono avvicinarvisi. Bulletti, in chiusura del proprio discorso, ha aggiunto che: “In futuro, una volta completati i contenitori felliniani, si dovrà tornare a ragionare anche di una Fondazione Fellini o qualcosa di analogo, che faccia tesoro dei guai dell’esperienza precedente, principalmente dovuti a un’architettura societaria impropria”. Una Fondazione, aggiungiamo noi, che si assuma la responsabilità di raccontare e spiegare il Maestro, di mantenerlo materia culturale viva e non imbalsamata. In fondo, che faccia di “felliniano” ben più di un aggettivo.
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