Sergio Gambini, Pd, senatore
di Sergio Gambini*
“Anche l’ira per l’ingiustizia fa roca la voce.” B. Brecht
Ci sono fatti di cronaca che diventano storia e aprono interrogativi decisivi nella coscienza comune di un paese, interrogativi che reclamano risposte all’altezza, idee forza capaci di modellare traiettorie e percorsi politici ed economici di lungo respiro. Sono fatti che possono radicare nell’opinione pubblica più profonda un giudizio storico e determinare per un lungo periodo il futuro della comunità nazionale.
La catastrofe del ponte Morandi ha queste dimensioni. Abbiamo un bel gridare noi di sinistra che chi guida il paese, privilegiando la gestione mediatica della tragedia, si è comportato come uno sciacallo e sta dimostrando, nel governo della ricostruzione, un campionario di straordinaria confusione ed incompetenza che sarà pesantemente pagato dalla gente di Genova e non solo.
Tutto vero, tuttavia ci si può girare attorno fin che si vuole, ma nessuno può dimenticare che sotto le macerie di quel ponte maledetto ci sono rimasti quaranta tre disgraziati, vittime innocenti di una tragedia terribile, ma purtroppo ampiamente annunciata e sicuramente evitabile, eppure accaduta.
La riflessione politica è sembrata glissare sul nodo politico centrale venuto allo scoperto: insieme a loro, non sembri irriguardoso, sotto quelle macerie è rimasta sepolta, nel suo drammatico fallimento, anche un’intera stagione del modello di modernizzazione perseguito dal nostro paese negli ultimi 25 anni.
Da subito infatti si è capito che riscontrare singole responsabilità individuali pur essendo assolutamente necessario, non basterà a spiegare il crollo. Ci sono certamente singole colpe, inefficienze, errori di progettazione e di manutenzione, mancati controlli, cattive pratiche o l’avida ricerca del profitto, dietro al disastro, al di là di tutto ciò, si staglia però un cortocircuito più grande che investe il tema fondamentale per le società contemporanee del rapporto pubblico/privato, una densa sostanza politica che segnala tutti i limiti del disegno riformatore perseguito negli ultimi decenni. Semplificando all’osso la domanda è se occorra andare avanti o tornare indietro sulle privatizzazioni e sulla liberalizzazione dei mercati.
La discussione pubblica si è invece trascinata senza capo ne coda attorno al coinvolgimento o meno della società autostrade nella ricostruzione del ponte e sulla eventuale revoca della concessione, più attenta al protagonismo dei diversi ministri, ai cavilli giuridici ed ai possibili oneri finanziari rispetto a quello che io ritengo essere il cuore del problema e che dovrebbe interrogare prima di tutti chi in quella stagione riformista ci ha creduto e ne è stato a vario titolo protagonista.
L’Italia ha affrontato dal 1992/93, sotto la spinta della crisi finanziaria, delle molte inefficienze e degli scandali, nell’orizzonte della globalizzazione, un tardivo percorso di progressivo smantellamento del peculiare modello di capitalismo di stato che ha caratterizzato i lunghi decenni della prima Repubblica.
Il traguardo della moneta unica europea è stata la cornice e la forza motrice di uno sforzo straordinario che ha coinvolto tutto il paese e che ha goduto, in molti suoi sviluppi, di grande consenso.
E’ stato un percorso fatto purtroppo di alterne vicende, di successi, come nel caso della telefonia mobile, ma anche di esiti deludenti come per l’ILVA, di passaggi non sempre trasparenti, di approcci differenti a seconda dei diversi interpreti, di destra o di sinistra, che negli anni hanno guidato quel processo.
Un percorso pieno di condizionamenti da parte del sistema politico, cui si sono sommati gli interessi di potenti gruppi privati italiani e stranieri e di quello straordinario grumo di competenze e di potere rappresentato dal ceto imprenditoriale pubblico, i cosiddetti “boiardi di stato”.
Con ricette differenti a seconda dei settori, dall’Alfa Romeo all’Alitalia, dal settore energetico a quello bancario ed assicurativo, dalla telefonia all’emittenza radiotelevisiva, alle infrastrutture della mobilità, ma con un denominatore comune: la grande difficoltà e refrattarietà a praticare una apertura dei mercati basata su privatizzazioni e liberalizzazioni sostenute da regole chiare, omogenee, continuative e inderogabili e da un sistema di controlli severo e rigoroso, come esiste in altri paesi.
La desiderata riduzione del perimetro di gestione e di intervento diretto dello Stato nell’economia, nonostante la spinta europea, purtroppo si è spesso tradotta non in mercati aperti, ma nella costituzione di nuovi monopoli, questa volta privati ed in una vita asfittica delle autorità di regolamentazione e di vigilanza non raramente “catturate” dagli stessi soggetti vigilati. Il contrario di ciò che sarebbe stato necessario.
D’altra parta parallelamente non è stato fatto crescere nella società civile quell’insieme di contrappesi che mitigano e consentono di correggere le inevitabili contraddizioni dei processi di liberalizzazione. Si pensi al mancato decollo del movimento consumeristico che avrebbe dovuto dare voce ai nuovi stakeholders della concorrenza e alla sostanziale incapacità di realizzare presidi efficaci per la sussidiarietà orizzontale.
Oggi viviamo sotto il segno del “governo del cambiamento”, ma le distorsioni si aggravano e si moltiplicano, ancora adesso dobbiamo assistere alla messa in discussione dell’indipendenza di una autorità di regolamentazione fondamentale come è la Consob, all’assedio del presidente dell’INPS, all’occupazione “manu militari” della RAI, alle proroghe infinite per disboscare l’inestricabile foresta fatta di mercati protetti, sprechi, inefficienze e privilegi rappresentata dalle ottomila partecipate degli enti locali.
Di fronte ad alcuni fallimenti, come nel caso del crollo di Genova, della crisi infinita di Alitalia o del default di grandi partecipate comunali, il clima che sembra prevalere tra i nuovi ed i vecchi attori della politica italiana è quello di un ritorno al passato, di una nostalgia per un ruolo dominante dello Stato in diversi settori dell’economia che fa da pendant al rilancio di una sua vocazione assistenziale.
Se l’Italia sovranista è “programmaticamente” più piccola, chiusa e rivolta all’indietro, tanto da farla apparire lontana dall’Europa, decisamente fragile nella competizione internazionale ed inevitabilmente destinata al declino, chi vi si oppone risulta, al di là delle urla di denuncia o dell’europeismo di maniera, nei fatti senza più voce, incapace di indicare una via d’uscita alternativa ed in avanti al modello di modernizzazione sepolto sotto il ponte di Genova.
Si tratta di un complessivo arretramento dell’orizzonte politico culturale di fronte alle sfide della modernità e dei mercati globali.
C’è un vento mondiale che alimenta i movimenti populisti e sovranisti, ma nel nostro paese, che più tardi ed in modo più contradittorio di altri, si è affacciato all’apertura dei mercati, quel vento è rinforzato in modo esponenziale dall’esito deludente di quella stagione rispetto alle grandi aspettative di nuova qualità, competitività ed economicità dei settori e dei servizi sottratti alla gestione statale. Per questa ragione il crollo del ponte Morandi è come se rappresentasse, nel sentire comune, il suggello di un giudizio su un’intera fase della storia nazionale.
Purtroppo l’unico interrogativo che sembra essere rimasto in campo è se tutto debba rimanere così come ci è stato malamente consegnato dalla contradittoria stagione delle liberalizzazioni all’italiana (posizione nella quale sembra essere imprigionata una sinistra eternamente protesa a difendere, anche contro l’evidenza, gli inciampi del suo “buongoverno”) o se non sia invece conveniente tornare agli antichi e rassicuranti assetti del passato, dalla lira alle nazionalizzazioni, all’assistenzialismo di stato.
Se queste fossero davvero le uniche prospettive sulle quali scegliere, oggi come oggi, non ci sarebbe partita: indietro popolo, alla riscossa, bandiera giallo verde trionferà!
Fin qui il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà mi dice invece che un’altra strada esiste, quella di un riformismo più radicale, di programmi politici che sappiano disegnare mercati e società davvero aperte, di una riproposizione dei cardini della democrazia liberale in un quadro di profondo rinnovamento delle sue forme. E’ l’unica strada per salvare il nostro paese, da ciò, io credo, deriva la sua forza.
Il ponte Morandi va ricostruito anche da questo punto di vista. Per ricollegare le due sponde non più comunicanti del popolo e dei gruppi dirigenti riformisti occorre lasciarsi alle spalle le macerie di quel fallimento e rifondare con rinnovato rigore e con coraggio la strada della società aperta.
*Pd, già senatore della Repubblica