– Anche là dove non sono statisticamente minoranza, i cristiani in Europa vivono oggi in una situazione di pluralismo religioso e culturale tale da far temere ad alcuni per il futuro stesso della fede. Questo timore sovente si accompagna a un rimpianto per l’epoca della cristianità della quale si colgono solo i vantaggi e si dimenticano le contraddizioni al vangelo che essa portava con sé e che, nella storia, hanno suscitato a più riprese istanze riformatrici all’interno della stessa chiesa. Altri fronteggiano il problema collocandosi su posizioni conflittuali, siano esse di strenue difesa o di abile attacco, finendo per accettare o addirittura favorire il processo che conduce la fede cristiana a declinarsi come “religione civile”, cioè come sistema culturale capace di fornire alla società quella morale comune che si ritiene deducibile solo a partire dalle religioni.
Quanti propugnano un connubio di questo tipo tra religione cristiana e società civile assumono la prospettiva del cristianesimo come cemento se non identità di un popolo: proposta allettante per la chiesa, specialmente se proviene da non credenti che ricoprono cariche politiche, ma tale da mettere in pericolo la laicità e il pluralismo democratico all’interno di uno stato e da consolidare all’esterno la percezione di una falsante identificazione tra cristianesimo e occidente.
Nella storia del nostro paese la chiesa si è sovente mostrata capace di creatività e concretezza nel rispondere a bisogni rimasti inevasi dall’organizzazione statale, soprattutto nel fronteggiare i diversi tipi di povertà ed emarginazione o nel farsi carico di un’adeguata educazione e formazione delle nuove generazioni: ma questo deve restare una modalità del “rendere visibile il Dio con il volto umano di Gesù Cristo” – come chiede Benedetto XVI e non un’occasione per chiedere o pretendere privilegi ed esenzioni nel vissuto sociale quotidiano.
Certo, molti riconoscono che così la chiesa “serve” alla società, che è presente nella vita della nazione, che il cristianesimo rimane “un fatto popolare”, che società e chiesa sono unite di fronte ai grandi temi. Ma questo cammino è pericoloso per la fedeltà della chiesa al vangelo: un cristianesimo declinato come religione civile vedrà magari i propri valori assunti e difesi anche da Cesare solo se e fin quando questi li considererà vantaggiosi per il proprio potere ma si troverà man mano svuotato della capacità di pronunciare parole profetiche e di annunciare la venuta del regno di Dio, che non è di questo mondo, ma che in questo mondo è immerso come lievito nella pasta. Che ne sarà allora della dimensione escatologica della chiesa, che ne sarà della sua libertà e gratuità, che ne sarà dell’insopprimibile tensione tra il “già” e il “non ancora”? Se la fede viene ridotta a uno dei tanti “beni di pubblica utilità”, infatti, finirà anch’essa subordinata ai bisogni cangianti della società, alle opportunità storiche e politiche, ai condizionamenti dei potenti del momento.
(Fonte Adista n.66 23/’06)