– La serie novembrina delle ultime quattro serate degli incontri filosofici presso l’aula magna della San Pellegrino di Misano, condotta da Gustavo Cecchini ha avuto, il 10 novembre, due eminenti docenti, interpreti del pensiero laico in campo scientifico ed umanistic: Piergiorgio Odifreddi e Giangiorgio Pasqualotto.
Nel filone delle “Vie Sapienziali” è stata inquadrata, la peculiarità e il contenuto della religione buddista di cui Pasqualotto ne è un sapiente conoscitore ed estimatore. Le sue pubblicazioni sono una chiara espressione del suo pensiero laico che lascia spazio ad un agnosticismo che vorrebbe dirsi distaccato ma che giocoforza lo coinvolge e lo condiziona, per un autore che ha messo piede in un campo così avvolgente e con risvolti anche mitologici.
Vediamolo questo vecchio e allo stesso tempo moderno pensiero del Buddha. Personaggio dall’origine leggendaria, vissuto nel VI secolo prima della nostra era volgare, il cui insegnamento costituisce una forma di culto predominante in vaste zone dell’Asia, oggi diffuso anche in occidente e che ha per oggetto la salvazione con un processo di liberazione affidato più allo sforzo individuale che non all’intervento di poteri soprannaturali. La sua impostazione iniziale si è venuta modificando strada facendo, a seconda dei luoghi. Buddha, (“lo Svegliato”; “l’Illuminato”), sarebbe probabilmente appartenuto ad una famiglia facoltosa ed a 29 anni, disgustato dalla quotidianità della vita cortigiana, avrebbe abbandonato moglie, figlio e famiglia per ritirarsi a vita meditativa, nella solitudine. Non manca nella descrizione dei suoi biografi: la nascita verginale, i miracoli, le tentazioni demoniache, le prodigiose guarigioni, la straordinarietà degli eventi che seguirono ed accompagnarono la sua morte.
I suoi biografi lo raccontarono almeno cinque secoli dopo il tempo in cui sarebbe vissuto e lo spazio per la costruzione delle leggende è quindi abbastanza disponibile, come per tutte le religioni.
I principi fondanti, più scelte ed indirizzi di vita, sono: l’abbandono delle attività che svolgevano gli adepti, la non resistenza al male, la ricerca della beatitudine nel “Nirvana” dopo una lunga serie di nascite e rinascite con la fine di ogni desiderio: “Metempsicosi” che fa perno attorno al concetto di “samsara”, cioè al ciclo delle nascite e delle morti ed alle tecniche di liberazione da questo ciclo.
Anche per questa religione esiste una specie di nostro Costantino dell’India, nella persona del re Asoka, che nel III secolo avanti Cristo si convertì alla nuova religione della quale subito si servì per dare un fondamento ideologico al piano di unificazione dinastica, facendo tenere un grande concilio buddista nel 247 a C. a Pàtaliputra, India.
Di nuovo, per noi occidentali, negli insegnamenti del Buddha che Pasqualotto riporta nelle sue opere, vi sono le indicazioni in campo etico e comportamentale indirizzate all’uomo, che mantengono una mirabile attualità e che individuano che “tanto più si procede nella conoscenza della struttura e della legge dell’intera realtà, tanto più si progredisce sulla via del perfezionamento etico”. In altri termini: “Tanto più profondo è il sapere, tanto più intensa diventa la compassione verso tutti gli esseri”.
“Ci si rende conto che il proprio io e quello degli altri esseri viventi non sono, come ritiene il senso comune, atomi isolati o pianeti irrelati, ma campi di forza interagenti o incroci di linee, allora si può anche comprendere che tutto quello che accade a un ente, animato o inanimato, condiziona tutti gli altri enti, e viceversa”.
Odifreddi ha illustrato la sua esperienza di contatto con il buddismo attraverso una intervista al Dalai lama ed ha scoperto l’interessante personalità del suo interlocutore ricca di umanità e di ricerca di conoscenza.
E’ chiaro che da questo incontro tra due personaggi così diversi non ci si possa aspettare una perfetta comunione d’intenti e rispondenza di idee e di orientamenti.
Odifreddi è senza dubbio una delle menti più brillanti e preparate con una visione del mondo scevro da ogni tipo di condizionamento, se non quello delle scoperte matematiche e scentifiche e, nel contempo, con una apertura mentale verso gli altri basata sul rispetto e sulla libertà di pensiero e di atteggiamenti che è tipica delle persone non credenti, più precisamente atee.
Pertanto, per la fortuna dell’incontro, essendo la religione buddista, se di religione vera e propria si può parlare, quella che, tra le tante in circolazione per il mondo, più si presta al raggiungimento della comprensione tra i popoli, ne è così scaturito un proficuo risultato ben analiticamente espresso dal relatore
Esperto di matematica, docente, scrittore ed autore di numerosi volumi di piacevole lettura, professore di logica, Odifreddi ha scoperto che la logica buddista è estremamente sviluppata e che si basa, per buona parte, sulla originalità della logica indiana che ha sviluppato uno studio del ragionamento che è molto simile a quello raggiunto in occidente.
A questo punto è interessante evidenziare come esiste un profittevole punto di contatto nel campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive, tra le esperienze del buddismo tibetano, che ha sviluppato delle tecniche di meditazioni e di introspezione per secoli, per millenni e le nuove ricerche e nuovi studi, nel mondo occidentale in campo scientifico.
L’illustre relatore ha evidenziato che, a prescindere dalle mitologie che, pur piacevoli, sono cose ben diverse dalle scienze; esiste un legame tra scienza e buddismo. Ha infatti ammesso che, pur avendo una mente al di fuori di ogni orientamento religioso, vede nel buddismo (che è una religione senza dei, senza la presunzione di avere libri sacri, senza profeti, senza pretesa esistenza di un’anima con vita ultraterrena) una interessante espressione di convivenza in questo presente così permeato di pericolosi fondamentalismi ed ha scoperto in particolare (per ammissione del Dalai Lama) che, nella eventuale insorgenza di un conflitto tra le idee e gli insegnamenti del buddismo e quelli della scienza, lui e i suoi adepti seguirebbero la scienza.
Monsignor Fisichella (vescovo ausiliare di Roma, rettore della Pontificia Università Lateranense, presidente della Cei) si è espresso in maniera esattamente contraria, ha infatti pontificato apertamente che deve prevalere.
Il 17 novembre, Marco Guzzi, poeta e saggista, nel quadro delle Vie Sapienziali ha scelto il filosofo tedesco Martin Heidegger, abbinandogli “la sapienza della incarnazione” con il titolo di “Mutare mente”.
Questo filosofo, la cui prima parte della sua vita viene generalmente riconosciuta come quella del grande rappresentante dell’esistenzialismo della prima metà del ‘900 (anche se lui in verità non ha mai accettato l’appellativo di “esistenzialista”), è un discepolo di Edmund Husserl, cui nel ’27 gli dedicherà la sua maggiore opera: “Essere e tempo”, utilizzando il metodo fenomenologico per descrivere l’esistenza umana nelle sue strutture.
A prescindere dalla brutta parentesi per il nazismo, poi superato, Heidegger si pone davanti a due livelli di esistenza di cui uno è quello “non autentico”; l’uomo dominato dalla “cura” va a dissipare entro una vita conformistica e convenzionale la propria personalità che si annega nella “banalità quotidiana” e l’altro è invece quello di una “autentica” esistenza a cui si perviene attraverso “l’angoscia”.
Il sentimento dell’angoscia, per Heidegger, è rivelatore del “nulla” della nostra vaquità dell'”essere” ed attraverso di esso ci pone di fronte alla prospettiva della morte che appare quale soggettiva possibilità della propria autenticità che produrrà nell’uomo lo sforzo per sfuggire da questa prospettiva e lo potrà liberare dall’ “inautenticità”, per cui la consapevolezza del nulla sarà ciò che può riscattarlo dalla esistenza banale.
L’ultima parte della vita di Heidegger vede il filosofo attirato da un richiamo del primato dell’essere sull’uomo, che si esplicita nel rapporto di dipendenza che lega l’uomo al suo linguaggio, per cui la funzione della mente pensante così situata può vedersi come una funzione che prepara e dispone l’uomo ad un ascolto al richiamo dell’essere tendente a farlo scivolare verso un tipo di filosofia misticheggiante.
Da qui trae lo spunto Guzzi, per far coincidere il suo pensiero di credente verso la soluzione del problema dell’uomo nella ricerca della spiegazione della sua unicità di fronte alla natura e agli animali che lo vede come elemento eletto e parte di una mente superiore creativa.
A parere dello scrivente il relatore entra in contrasto, in buona fede e senza accorgersi, con l’autenticità della scienza e delle sue leggi di natura che non possono lasciare spazio ad una confusione tra le asserzioni scientifiche e le idee di fede.
La penultima serata, quella del 24 novembre, nella sempre affollatissima aula magna, ha visto come relatore l’umanista filosofo Salvatore Natoli che ha scelto, nel quadro delle Vie della Sapienza, “il disincanto e il gusto della vita”, nell’autore bibblico “Qohelet”, con il titolo “Vanitas”.
Natoli ha analizzato e sviscerato gli aspetti che in un certo qual senso escono dal canone bibblico per assumere un insegnamento che trae spunto da un significato della vita che fonda le sue ragioni nella capacità dell’uomo piuttosto che nell’aiuto della divinità.
Qohelet con il suo scritto, parla al suo mondo Giudaico cercando di tenerlo all’interno della fede di Israele, nel quale giungevano invece anche le tentazioni che, dal mondo ellenistico, arrivavano quali loro conturbanti messaggi. Infatti in quel mondo circondato dalle filosofie orientali, mesopotamiche, dalle filosofie epicuree e stoiche, che erano piene di valori capaci di mettere in crisi le certezze nella fede ebraica, non era insolito l’insorgenza di inquietanti interrogativi tra i fedeli.
Infatti l’ebreo rispettoso della “Torà”, ovvero della “legge”, entra in crisi dalla constatazione che lui, servo della legge, si accorge di non essere gratificato dalla benedizione divina, ma afflitto dalla sofferenza nel corso della sua vita.
“Io che sono rispettoso della legge mi accorgo che il mio destino non è migliore degli altri, anzi.
Che ne è dunque di questa promessa? che ne è dunque della mia alleanza con Dio?
Perchè mi devo accorgere che Dio è in un certo senso lontano, latitante e che invece mi aspetterei che dovrebbe essere con me presente con la garanzia della benedizione, mostrando a tutti che, quelli che seguono la legge, attingono alla beatitudine”.
Qohelet (“convocatore”, “colui che convoca”); nella traduzione della vulgata vorrebbe definire il termine di “Ecclesiaste” = “assemblea”, cui l’autore vuol fare scaturire l’insegnamento verso un più vasto orizzonte, verso un discorso cosmico, universale e per questo si ammanta di una dinastia regale per farsi intendere, si inventa figlio di Davide e vuol parlare a tutto il popolo d’Israele come un Salomone, capace di indirizzare e guidare il suo popolo.
Ed ecco allora che Qohelet indica al suo popolo che deve cercare non in superficie ma in profondità. Occorre quindi che impari anche di patire le delusioni della vita che sono tipiche della esistenza e che servono a formare l’uomo: la vita va vissuta per intero e fino in fondo. Perché la vita è una sola, che ci è dato di vivere ed è un passaggio transitorio.
La vita è come un fumo e si dissolve. Quindi non va sprecata, ma va vissuta e goduta nel tempo che ci è dato di viverla.
Occorre gustare il piacere, l’odore, il gusto della vita mentre dura e questa asserzione non va vista in chiave nichilista, ma in chiave di apprezzamento della stessa vita in tutta la sua bellezza mentre questa si svolge. Tutto ciò mentre la terra sta, nel tempo a noi assegnato e la vita realizzarla al meglio.
La grandezza della vita non sta nell’eternità, perché nessuno può averla, ma nel sapore che sapremo cogliere nel suo transitare.
E solo alla fine della vita l’uomo può gustare tutto ciò che è stato per lui il bene prezioso che ha avuto e così potrà constatare se ha ben condotto la sua esistenza, se questa è stata esemplare, tenuto conto che la preziosità della vita, a quel punto, è “sapere bene invecchiare”, che dovrebbe essere il naturale obbiettivo di tutti, (ed avere la fortuna di poter invecchiare. n.d.r.).
Enzo Tiezzi ha concluso il ciclo il primo dicembre, con: “Le culture indigene americane; un sapere radicato nella natura”. Toscano nato a Siena, docente di Chimica Fisica presso la sua Università cittadina, è un uomo di scienza estremamente preoccupato dell’impatto che le “fughe”, nel campo delle scoperte scientifiche, possano provocare alla natura.
Ne sono un esempio la dedizione delle sue ricerche e dei suoi viaggi nelle americhe del centro-sud e le sue pubblicazioni attorno al problema dello “Sviluppo sostenibile”.
La sua teoria attorno: “Fare in modo di prelevare sul pianeta solo ciò che non danneggia i prodotti della natura”. Allo scopo ha illustrato sistemi di vita di popolazioni indigene, che noi definiremmo sottosviluppate, che nel loro attingere alla natura ed agli esseri viventi, si preoccupano contemporaneamente di non alterare l’equilibrio per la necessaria riproduzione.
Sollecitato dal pubblico, ha illustrato la grandezza, quale uomo di cultura, dello professor Ilya Prigogine, suo amico, maestro e guida, scomparso tre anni fa ad 86 anni, che ha introdotto nello studio delle scienze la nozione del tempo; nozione che vorrebbe porre la pretesa differenza tra tempo fisico e tempo filosofico che viene posta dall’Uomo e non dalla Natura e che invece gli sviluppi della scienza negli ultimi decenni dimostrano che non è possibile fare questa distinzione.
Parimenti ha fatto riferimento costante ad un altro suo maestro e collega nel campo della diversa visione della comprensione della natura, Antonio Melis.
di Silvio Di Giovanni