E’ appena atterrato un enorme aereo e io, nella mia qualità di capo dell’aeroporto, devo effettuare il controllo dei passaporti. Davanti a me ci sono tutti i passeggeri dell’aereo, in attesa. All’improvviso vedo una strana figura, un vecchio cinese dall’aria antica, vestito di stracci ma dall’aspetto regale, che emana un tanfo terribile. Aspetta di poter entrare. Si ferma davanti a me senza dire una parola. Non mi guarda nemmeno. E’ totalmente assorbito da se stesso. Guardo la targhetta che ho sulla scrivania sulla quale sono scritti il mio nome e la qualifica, il che dimostra che qui comando io. Ma non so cosa fare. Ho paura di farlo passare perché è molto diverso, e poi non lo capisco. Temo fortemente che, se lo lasceró passare, sconvolgerà la mia tranquilla esistenza. Ricorro allora a una scusa che è una bugia che mette a nudo la mia debolezza. Molto come farebbe un bambino. Non riesco a decidermi ad assumere le mie responsabilità. Dico: “Vede, non ne ho il potere. In realtà non sono io che comando qui. Devo chiedere ad altri”. Chino il capo per la vergogna. Dico: “Attenda qui, torno subito “. Mi allontano per prendere una decisione, ma non decido nulla. Indugio e continuo a chiedermi se al mio ritorno lui ci sarà ancora. Ciò che mi paralizza è che non so se ho più paura che lui ci sia oppure che non ci sia più. Sono trent’anni che ci sto pensando. Ho capito molto bene che c’era qualcosa che non andava nel mio naso, non nel suo odore, eppure non sono mai riuscito a persuadermi a tornare indietro e a lasciarlo passare, oppure a cercare di capire se mi aspetta ancora.
Federico Fellini , “Io, Federico Fellini”, a cura di Charlotte Chandler, Mondadori MI 1995, pagg. 83-84