Ha qualcosa di diverso, di magico. E’ un uomo, nel senso più vero della parola. Da alcuni anni è parroco a Montefiore, il paese dove è nato.
Come nasce la sua vocazione?
“C’è un contesto non solo familiare, ma anche sociale che ti orienta e ti permette di affascinarti per un impegno o un servizio sociale. Lo zio di mio babbo, don Agostino Giungi, è stato parroco di Montefiore per 34 anni. Io ho frequentato l’asilo dalle Maestre Pie; alle elementari ho avuto una suorina come insegnante. Le medie le ho fatte a Morciano, ma dopo due anni sono andato a Rimini, al seminario di fianco al duomo. Lì ho fatto fino alla quinta ginnasio. Infine, a Bologna per il Liceo e i 5 anni di Teologia. Dopo mi hanno mandato a Cattolica, San Pio V, a sostituire l’attuale vicario generale, Aldo Amati. Dopo tre anni mi hanno spedito a Roma per la laurea in Teologia. Nel ’71, ritorno a Rimini come direttore del Centro studi diocesano. Nel ’74 fondo il Ponte, do una mano a Riccione-San Lorenzo e vado a spasso”.
Che cosa si aspetta un fedele dalla chiesa?
“A mio parere, è abbastanza sconcertato, soprattutto negli ultimi tempi. L’intervento morale e di principi, che è politica, vede le cose e invece di parlarne in modo serio, vengono messi nelle teche. Gli scienzati di prestigio dicono che tra 40 anni il globo sarà invivibile; sarà un aborto collettivo di tutta l’umanità. Mi sembra che manchino le proporzioni e di questo inconsciamente il cattolico se ne accorge. Credo che abbia bisogno di una chiesa più profetica, di più lunga distanza e di più speranza. Speranza e ottimismo che non sono al top nella gente. Ci vogliono strade e prospettive”.
Che cos’è la solitudine per un prete?
“Ha due tipi di solitudine. Una psicologica, legato al fatto di non avere famiglia, figli. E non è questa la più pericolosa. C’è quella che nasce in te, tra la prospettiva che hai dentro e quello che la gente percepisce. Di solito capisce sempre la metà. La solitudine dei profeti sono voci che guidano nel deserto. Che non è solo rispetto alla gente, ma anche rispetto alla chiesa; cose che ti fanno sentire abbastanza velleitario. Ho lanciato di formare un gruppo di preti aspettando il nuovo vescovo e non essere dei cani sciolti”.
Com’era la sua famiglia?
“Mio babbo era tassista e autista dell’ingegnere che dirigeva la cava di zolfo di Montefiore. Mia madre gli dava una mano facendo la magliaia. Non è stata una vita facile, senza soldi da sprecare. Ma noi tre fratelli abbiamo studiato tutti. Come educazione era abbastanza orientata; con un paese isolato ma pieno di complicità”.
Ha degli hobby?
“Li avevo; andavo in bici da corsa. Ho diretto diversi cine-forum a Rimini e Riccione e con padre Nazzareno Taddei abbiamo fondato il Centro San Fedele di Milano. Per distendere la mente faccio le parole crociate”.
Qual è il peccato più diffuso?
“L’incoscienza. E’ un peccato strano, fuori dai Dieci Comandamenti. Ma è il lasciar fare, la mancanza di assunzione di responsabilità. Il peccatore ha la possibilità di convertirsi, chi non si muove no: l’ignoranza è peggio della cattiveria”.
Che cosa più umilia un essere umano?
“E’ la sottile asportazione della libertà, che gli fa perdere la creatività, la capacità di pensare ad un mondo diverso rispetto a quello che ha nelle mani. Lì per lì non sembra un grande dolore, ma alla lunga ti scuote. Per cui una delle prediche dei preti è: svegliatevi”.
La colpa più grave di un ricco?
“Non è il non dar via i soldi, ma non pensare all’utilizzo del suo capitale come ad un mezzo di sviluppo collettivo, per contribuire alla felicità sociale di più persone possibile. C’è cibo per sfamare 5 volte l’attuale popoalzione sul mondo, ma si muore di fame”.
Che cosa la chiesa dovrebbe scacciare dal tempio?
“Chi la utilizza per scopi personali; quando la dottrina sociale e la morale della chiesa viene utilizzata per altri fini equivale ad un sacrilegio: sono sempre gli amici che ti fregano meglio. Ho l’impressione che il Concilio Vaticano II, nello spirito, ce lo stiamo mangiando pezzo e pezzo. Rivedremo la messa in latino”.
Ha mai paura?
“E’ un sentimento che non mi prende più. Sono incosciente vado anche più in là di quello che sarebbe prudente fare”.
Quali sono le tenatzioni di un sacerdote?
“Il volersi creare un piccolo regno dove tu sei il papa, il principe, l’imperatore, non rispettando il cammino autonomo degli altri”.
Che cosa imparare dalla Bibbia?
“La Bibbia, letteralmente, è interessante ma lontana. Ma se l’attualizzi entri in una dialettcica che ti possono contestare. C’è una chiesa di bigotti che rischia di allontanare chi ha fede. La chiesa abbraccia, ma spesso è incapace di rapportarsi. Il famoso periodo del dialogo credo che vada ripreso con un certo coraggio, altrimenti ci tagliamo fuori fino a diventare un ghetto. E’ la famosa tentazione di avere sempre ragione che diventa un guaio”.
Per chi prega in particolare?
“Per situazioni specifiche. Ma ho una preghiera più contemplativa che operativa: serve più a me che alle cose che faccio”.
Perché Dio permette un mondo così ingiusto, così pregno di sofferenza e miseria?
“Rispondo di sponda. Se il padre sa che il figlio finisce male, perché gli ha dato l’eredità? Siamo noi che roviniamo; finché non prendiamo coscienza che il volante del mondo siamo noi, rimarremo bambini”.
Che difetti si riconosce?
“Un pizzico di orgoglio, senz’altro. Uno scarso controllo dei comportamenti e abitudini che è un indice di fideismo. Nel senso che quello che faccio io va bene perché l’ho fatto io. E non può essere giudicato con altri criteri. E la poca capacità di coordinarmi con altri in progetti comuni”.
Chi ha contrassegnato di più la sua vita?
“A livello giovanile don Oreste; è il mio padre spirituale. Mi ha trasmesso la gioia della vita. L’altra persona è monsignor Lanfranchi, vicario generale, pur mantenendo una spinta ideale che non scendesse a compromessi col potere e soldi. A Roma ho incontrato grosse figure, più per insegnamento che per vita”.
Lei è uno studioso, qualche volta non perde la speranza?
“C’è un oltre che dà aria anche alle piccole cose che fai tutti i giorni. Ho l’impressione che sia anche la struttura normale degli uomini: se non si ha qualcosa di oltre non ha senso. Non sempre il perdere immediato è un perdere definitivo. Tante persone sono state valorizate dopo la morte, e anche il contrario”.
Che cosa si può fare contro lo scempio della natura?
“Come singolo, o come Romagna, ti rendi conto che non hai i canali adeguati per incidere sul cambiamento. Vanno prese decisioni universali. C’è una presa di coscienza sociale che deve crescere. Solo così i politici e gli industriali saranno condizionati nelle scelte”.
Lei ha conosciuto molti vescovi di Rimini, quali ricordi?
“Biancheri era un pastore nel senso vero della parola; aveva un buon rapporto con i preti ed era aperto al Concilio. La sua chiesa era comunitaria e non autoritaria. C’era molto opposizione, perché non si prestava a giochi ambigui. Decaduto è rimasto a Rimini dalle suore, dove è morto. Monsignor Tonini è stato a Rimini in una fase di interregno e si divideva con la diocesi di Ravenna. Nel suo frangente è stato un amministratore apostolico.
Giovanni Locatelli era un bergamasco. Dunque un montanaro, non dico con la testa dura ma con le sue prospettive: ordine e disciplina. Poi è arrivato monsignor Mariano De Nicolò”.