– Il 23 marzo scorso, un volo charter partito dall’aeroporto di Rimini per Tinduf con destinazione campi profughi Saharawi, ha visto partecipare anche una delegazione del nostro territorio; oltre al sottoscritto, erano presenti il sindaco di Riccione, Daniele Imola, Pietro Cavallaro dell’Associazione Amici dei Saharawi di Riccione, Marina Gambetti primario del pronto soccorso di Riccione, Ilenia Tenti, assessore di Montecolombo e Federica Giannei, psicologa, oltre ad alcuni amici di Cattolica.
Scopo del viaggio è portare aiuti, attrezzature e medicinali ad una popolazione che vive esclusivamente di donazioni. Quest’anno la partecipazione della delegazione del nostro territorio ha però anche l’onore di inaugurare l’ospedale di Smara, realizzato con risorse donate dal nostro territorio, in particolar modo dalla Sis, in rappresentanza dei quattordici Comuni della zona Sud della provincia, da Romagna Acque, dalla Provincia di Rimini, dall’Ausl e da tanti altri privati.
Io, che ero presente anche alla posa della prima pietra nel febbraio del 2006, ho assistito con emozione all’inaugurazione dell’ospedale, terminato in un solo anno grazie all’impegno determinante delle Associazioni Amici dei Saharawi di Reggio Emilia, Albinea e Riccione.
L’ospedale, realizzato nel campo profughi di Smara, servirà una popolazione di 50.000 abitanti, che prima non poteva contare che su alcuni dispensari per la distribuzione minima dei medicinali.
Con 155.000 euro si è realizzata una struttura di discrete dimensioni, con la possibilità di ospitare 72 pazienti, con sale per urgenze mediche, sale per il parto e altri spazi sufficienti a dare una risposta adeguata. Ora occorrerà lavorare per l’allestimento della struttura, per l’acquisto delle attrezzature che avranno un costo almeno pari a quello di realizzazione e che dovremo cercare di reperire nuovamente dal nostro territorio, facendo appello alla sensibilità delle persone e delle istituzioni. Questa fase, sarà accompagnata a quella di formazione del personale medico, impegno che sarà affidato all’Ausl e alla buona volontà dei suoi dipendenti.
La storia dei saharawi è la storia di un popolo di profughi che vive in esilio nel deserto algerino, cacciati dalle loro terre (Sahara Occidentale), luogo nel quale non possono fare ritorno dal 1976, quando sotto i bombardamenti dell’aviazione marocchina furono costretti ad abbandonare la loro terra e a rifugiarsi in questo angolo del mondo, ospitati e protetti in territorio algerino.
E’ uno degli ultimi casi di colonialismo africano, prima colonia spagnola, poi marocchina e mauritana, ora solo marocchina, grazie ad accordi tra paesi in un gioco di alleanze, veti, supremazia e dominio geopolitico in Africa.
Il Marocco, che oggi occupa quelle terre, ha eretto un muro di 2.400 chilometri, protetto dall’esercito e da campi minati che impedisce fisicamente ai saharawi di attraversare il confine; il costo per il mantenimento di questa struttura è di circa un milione di dollari al giorno, mentre i profughi saharawi, dall’altra parte muoiono di fame e di malattie.
L’Onu ha messo in campo iniziative volte a trovare una soluzione, ma veti incrociati di Marocco e altri paesi, per motivi diversi, lo hanno impedito.
Dopo la guerra tra Saharawi e Marocco, terminata grazie all’intervento dell’Onu nel 1991, dopo 15 anni di ostilità, è stato possibile l’intervento sul territorio di forze di interposizione dell’Onu (Minurso) e lo studio di un percorso di riconoscimento di indipendenza che doveva passare attraverso un pronunciamento referendario della popolazione.
Il percorso è stato accettato dal Marocco, che entro un anno dal 1992, doveva fare svolgere un referendum per l’autodeterminazione. Da allora, nonostante numerose deliberazioni dell’Onu, il Marocco ha sempre impedito il referendum.
E’ chiaro che alle autorità marocchine interessa tenere saldamente in mano un territorio che dispone di risorse minerarie interessanti (i giacimenti di fosfati più grandi del mondo) e una delle aree più pescose al mondo.
Il piano Baker II, approvato nel 2004 all’unanimità dal consiglio di sicurezza dell’Onu, che prevedeva un periodo di amministrazione congiunta, quattro anni, e poi un referendum con tre possibili alternative, indipendenza, annessione al Marocco o autonomia amministrativa, è stato rifiutato dal Marocco.
Anche Amnesty International denuncia la brutalità della polizia e le condizioni di violenza nelle carceri marocchine dove i saharawi vengono rinchiusi e torturati.
L’auspicio è che la comunità internazionale, l’Onu, i rappresentanti dei due paesi, riescano a breve a trovare una via di uscita a questa situazione prima che riesploda un conflitto che ha causato in passato centinaia di migliaia di vittime.
I campi profughi saharawi sono immense tendopoli in un lembo di deserto algerino, dove manca praticamente tutto, acqua principalmente, ma anche luce, telefono, gas, cibo. Dove la temperatura nei mesi estivi raggiunge i sessanta gradi, una escursione notturna di oltre 30 e dove le condizioni di vita sono difficilissime.
Ciò che tiene in vita e dà una prospettiva a questo popolo è la speranza di fare ritorno nelle loro terre, di potersi sentire liberi e di decidere il loro destino. E’ per questo che in questi luoghi sicuramente tra i più inospitali della terra, continuano a sopravvivere con estrema dignità con una organizzazione di stato in esilio dove esiste un sistema scolastico apprezzabile (l’analfabetismo è pari a zero), una organizzazione amministrativa all’avanguardia (guidata dalle donne) e una formazione rivolta alle nuove generazioni molto attenta, affinché quando si realizzerà il sogno di ritorno nei territori occupati, la classe dirigente sarà pronta.
A noi che abbiamo visto le condizioni di vita di questo popolo, spetta il dovere di fare qualcosa: non sono sufficienti gli aiuti, i progetti di cooperazione dove le nostre istituzioni regionali sono realmente molto impegnate, come l’ospitalità estiva dei bambini che dà loro immensa gioia e un periodo di spensieratezza.
Occorre fare conoscere alle persone chi sono i saharawi, come vivono, le loro difficoltà e soprattutto la grave ingiustizia della quale sono vittime.
di Fabrizio Piccioni (Assessore provinciale)