di Francesco Daveri, professore dell’Università Bocconi
L’Europa concorda un piano di rilancio dell’economia da 750 miliardi, finanziato con Eurobond. Un accordo che prova a guardare al futuro e a mettere nell’angolo gli egoismi degli stati nazionali e dei sovranisti. Ora servono riforme e serve farle bene.
I leader Ue prendono una decisione storica che guarda al futuro
Dopo quattro giorni e quattro notti di trattative, i leader dei 27 paesi dell’Unione Europea si sono accordati su una decisione senza precedenti. Oltre a rinnovare (e aumentare a più di mille miliardi di euro) i fondi per il bilancio Ue 2021-2027, per la prima volta la Commissione europea metterà a disposizione dei paesi Ue più colpiti dalla più grande recessione degli ultimi 70 anni 750 miliardi di euro finanziati con l’emissione di Eurobond. Di fronte a una situazione eccezionale (con un Pil 2020 dato in calo dell’8 per cento), l’Europa è stata cioè capace di esibire una risposta eccezionale che combina elementi di solidarietà e di visione del futuro. La solidarietà viene dal fatto che i fondi del pacchetto approvato si prevede vadano a finire in modo sproporzionato nelle tasche dei paesi più colpiti dalla pandemia (l’Italia dovrebbe ricevere 209 miliardi, 81 in sussidi e 128 in prestiti). Qualche mese fa, un risultato di questo tipo sarebbe stato bollato come il risultato in una “transfer union” (un’unione in cui i soldi sono presi sempre dalle tasche di qualcuno – i tedeschi – e vanno sempre a finire nelle tasche di qualcun altro, i paesi del sud Europa) e quindi bocciato dall’opinione pubblica tedesca e del nord Europa. Ma, sotto l’attenta regia delle tedesche Ursula von der Leyen (presidente della Commissione europea) e Angela Merkel (presidente di turno dell’Unione nel secondo semestre 2020), l’accordo raggiunto si qualifica come un pacchetto che finanzierà riforme strutturali e investimenti pubblici in campo digitale, educativo, infrastrutturale ed energetico: un “Next Eu generation Recovery Fund” che mette l’accento su un domani di una crescita più sostenibile, non sull’oggi della redistribuzione.
Un accordo non scontato ma obbligato
L’accordo è un ottimo risultato, non scontato anche solo fino alla settimana precedente il lungo summit di Bruxelles che ha portato all’adozione del pacchetto. Ma era anche in qualche modo un risultato obbligato. Negli ultimi mesi, infatti, tutti i governi e le banche centrali dei vari paesi del mondo (ricchi e poveri) hanno risposto con interventi eccezionali per entità e qualità a una recessione mai vista. Secondo i più recenti calcoli del Fondo Monetario, i governi del mondo hanno messo in campo 11 mila miliardi di dollari (una cifra pari al Pil di Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito sommati) in aiuti e prestiti eccezionali oltre ai supporti automatici all’economia che arrivano dalle minori entrate causate dalla recessione e dai sussidi automatici come le indennità di disoccupazione. Circa metà di questa enorme cifra arriverà da prestiti, ricapitalizzazioni di aziende in difficoltà e garanzie offerte attraverso il sistema bancario e tramite imprese e agenzie pubbliche (come la nostra Cdp, Cassa Depositi e Prestiti). Sono risorse pubbliche che servono a garantire liquidità e preservare la continuità aziendale, evitando i fallimenti, e si aggiungono a deficit e debiti pubblici solo nel caso in cui questi interventi diano luogo a perdite. È ciò a cui si riferiva l’ex presidente della Bce Mario Draghi quando nel suo intervento sul Financial Times del 25 marzo parlò della necessità di fronteggiare la crisi che stava arrivando trasformando “i debiti privati in passività pubbliche”. Poi c’è l’altra metà dei fondi pubblici che consiste di maggiori spese pubbliche e minori entrate vere e proprie (che quindi aumentano immediatamente deficit e debiti pubblici). È in questo contesto che arriva l’intervento dell’Europa. Il supporto di 750 miliardi deciso a Bruxelles è composto da 390 miliardi di aiuti (che quindi non si aggiungeranno ai debiti pubblici nazionali) e 360 miliardi di prestiti che invece – se attivati – produrranno maggiore debito pubblico degli stati nazionali nei confronti dell’Europa nel suo complesso. La proposta iniziale di Francia e Germania, che godeva del convinto supporto di Italia e Spagna, puntava a un mix diverso, con 500 miliardi di aiuti e 250 miliardi di prestiti, ma i paesi cosiddetti “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca, Austria e Finlandia) hanno spinto per una soluzione con più prestiti e meno aiuti che espone meno la Commissione e responsabilizza di più i paesi beneficiari dei fondi. Va anche ricordato che i “frugali” – apparentemente preoccupati di un’eccessiva assunzione collettiva di rischio – sono stati in definitiva anche “furbetti”, dato che nell’accordo hanno portato a casa un aumento dei cosiddetti “rebates”, gli sconti nei contributi al bilancio pubblico europeo, privilegi immotivati e da cancellare secondo alcuni paesi, e che invece saliranno a seguito dell’accordo (anche per la Germania, tra l’altro).
Infine – altro punto qualificante dell’accordo di questi giorni – il monitoraggio nella gestione dei fondi rimane rimesso alla valutazione della Commissione europea mentre il Consiglio europeo (dove sono rappresentate le volontà dei governi nazionali) deciderà su questi temi a maggioranza qualificata, il che elimina la possibilità del veto da parte di singoli paesi che sarebbe stato in contrasto con la legislazione Ue. Viene previsto tuttavia un meccanismo di “freno di emergenza”: in casi speciali in cui si ravvisino rilevanti scostamenti rispetto ai piani annunciati, un gruppo di paesi potrà sollevare la questione al Consiglio europeo.
Un accordo che mette i sovranisti europei nell’angolo
In definitiva, l’accordo che esce da Bruxelles vede l’Europa nettamente rafforzata. Sono passati secoli dall’umiliazione della Grecia di otto anni fa. Oggi è l’Europa nel suo complesso che pone il tema del rafforzamento della crescita e della competitività del continente, spingendo di nuovo l’acceleratore sulle “riforme strutturali” che l’avvento del sovranismo aveva messo in soffitta. Rimane infatti che, al di là delle parole d’ordine di chi vuole fare per sé, paesi con redditi pro capite elevati, con una prevalenza di anziani e una elevata densità della popolazione come sono i paesi europei non possono crescere e creare lavoro per i loro giovani se non riescono a riformare la loro pubblica amministrazione, a semplificare le vita alle loro piccole imprese, a migliorare il funzionamento della giustizia, della sanità e della scuola. Certo, non tutte le riforme sono buone, non tutte funzionano e anche quelle fatte bene spesso richiedono anni per produrre risultati efficaci. Ma bisogna farle e farle bene. E ora ci sono i soldi dell’Europa per finanziarle su un orizzonte temporale plausibile che va oltre il breve periodo. L’accordo di oggi è forse un primo passo di un’Europa meno matrigna e più casa comune. Un’unione che – nel ricostruirsi – prova a mettere da parte gli egoismi e le umiliazioni della crisi dell’euro che tanto consenso elettorale hanno portato a chi l’Europa vuole vederla distrutta e asservita alle altre grandi potenze.