Tratto da lavoce.info
Fausto Panunzi, insegna Economia Politica presso l’Università Bocconi
Secondo un libro pubblicato recentemente, gli squilibri commerciali sono in realtà causati da una crescente disuguaglianza all’interno di alcuni paesi. Il rimedio non va cercato in dazi e politiche protezionistiche, ma in politiche redistributive più efficaci.
Trade wars are class wars (Yale University Press, 2020) è un interessante libro di Matthew C. Klein e Michael Pettis pubblicato alcune settimane fa. Il titolo riassume perfettamente la tesi principale del libro: le guerre commerciali tra paesi sono in realtà da interpretare come lotta di classe, tra lavoratori e élite. Il sottotitolo è anch’esso significativo: come la crescente disuguaglianza distorce l’economia globale e minaccia la pace internazionale.
Avanzi commerciali ed eccesso di risparmio
È ben noto che alcuni paesi hanno da anni rilevanti avanzi commerciali, cioè un eccesso di esportazioni rispetto alle importazioni. Cina e Germania sono i due esempi citati estensivamente nel libro. Ovviamente, poiché non tutti gli stati possono avere un eccesso di esportazioni, alcuni devono essere nella situazione opposta, cioè quella di un deficit commerciale. Gli Stati Uniti sono probabilmente il caso più ovvio, quello su cui si concentra l’attenzione del libro. Il deficit commerciale degli Usa verso la Cina è stato uno dei temi principali della campagna elettorale prima e poi dell’azione politica del presidente Trump, con l’accusa di pratiche commerciali scorrette e manipolazione valutaria e con la richiesta di un riequilibrio tra i due paesi anche attraverso l’imposizione di dazi. Il libro di Klein e Pettis suggerisce che tali azioni sono destinate ad avere scarsi effetti poiché gli squilibri commerciali sono solo un effetto del vero problema, la massiccia redistribuzione che c’è stata dai lavoratori alle élite, alle imprese, ai detentori di capitali in alcuni stati come la Cina e la Germania.
Il libro ricostruisce i vari passaggi che hanno portato Cina e Germania a ridurre il potere negoziale dei lavoratori (per la Germania vengono citate le riforme del piano Hartz dei primi anni zero) e quindi la loro quota di redditi, aumentando le disuguaglianze. Ma – è la tesi centrale del libro – sono i lavoratori, i meno abbienti, ad avere una maggiore propensione al consumo mentre i ricchi tendono a risparmiare una maggiore quota del loro reddito. Lo spostamento del potere negoziale a sfavore dei lavoratori ha ridotto quindi la domanda interna in Cina e Germania, rendendo però al contempo più competitive le loro produzioni. Inevitabilmente ciò si è tradotto in maggiori esportazioni.
Da un punto di vista leggermente diverso, in Cina e Germania (ma non solo) si è creato un saving glut, un eccesso di risparmio. E dove si è diretto questo eccesso di risparmio? Ovviamente verso il paese con il sistema finanziario maggiormente sviluppato e con la valuta di riserva globale, cioè gli Stati Uniti. Il massiccio flusso di capitali verso gli Usa ha provocato la bolla immobiliare il cui scoppio è all’origine della Grande Recessione. L’apprezzamento del dollaro ha reso poco competitive alcune produzioni americane e ha creato una deindustrializzazione in alcuni stati, con le ovvie conseguenze occupazionali. Questo malcontento della classe operaia si è poi espresso alle elezioni favorendo Trump. Il presidente francese Giscard d’Estaing disse che avere il dollaro come valuta di riserva era un privilegio esorbitante (exorbitant privilege) per gli Usa. Gli autori dicono che invece ciò è diventato un onere esorbitante (exorbitant burden).
C’è una soluzione?
Se questa è la diagnosi, qual è la terapia? Non bisogna concentrarsi sui deficit commerciali, sostengono Klein e Pettis, perché essi sono solo sintomi del vero male. Bisogna invece aumentare il reddito dei lavoratori, in modi diversi a seconda del paese considerato. In Cina occorre procedere verso una transizione da un modello economico basato su investimenti ed esportazioni a un modello economico basato sui consumi interni, aumentando i diritti dei lavoratori e il loro potere negoziale ed espandendo il sistema di welfare. In Germania occorre redistribuire il carico fiscale a favore dei redditi più bassi e aumentare gli investimenti. Negli Usa occorre usare meglio i capitali che affluiscono, indirizzandoli verso il miglioramento delle infrastrutture e facendo attenzione a non fare aumentare troppo il debito privato. Gli autori poi sognano una grande riforma del sistema finanziario internazionale, con il superamento del dollaro come valuta di riserva e un ritorno alle idee esposte senza successo da Keynes a Bretton Woods, cioè una valuta di riserva che non sia quella di un singolo paese.
Il libro contiene tesi certamente interessanti e stimolanti, ma anche controverse. Gli aspetti specifici di commercio internazionale passano in secondo piano a favore degli squilibri macroeconomici internazionali, ma è plausibile che in realtà entrambi i fattori giochino un ruolo importante. L’idea che ci sia stata negli ultimi anni un’enfasi eccessiva e sbagliata sulla competitività è destinata ad avere orecchie interessate. Tuttavia, è importante notare che se le politiche raccomandate in questo libro fossero attuate solo in uno o più paesi di dimensione medio-piccola, l’unico effetto sarebbe quello di spostare la domanda verso le produzioni di altri stati, senza un beneficio significativo in termini di domanda complessiva globale. Questa considerazione è ovviamente molto rilevante per i paesi europei: l’Europa dovrà saper alzare l’asticella per essere all’altezza delle sfide globali, ma forse gli eventi di questi giorni ci danno segnali incoraggianti.