Tratto da la voce.info
di Rony Hamaui, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
La pandemia ha colpito tutti i paesi ed è stata contrastata con ricette simili ovunque, riducendo così le tensioni economiche-finanziarie. L’uscita della crisi potrebbe dimostrarsi più insidiosa. Le misure straordinarie vanno eliminate con gradualità.
Il sistema finanziario in tempo di pandemia
La pandemia e le misure che l’hanno accompagnata sono state un potente anestetico alle numerose patologie presenti nel sistema economico e finanziario mondiale. La crisi causata dal Covid-19 è risultata infatti uno shock sistemico che ha colpito simultaneamente tutti i paesi, così come le politiche monetarie e fiscali adottate dai governi per arginarne gli effetti sono state, pur senza un esplicito accordo, particolarmente allineate. Questo ha permesso una forte riduzione delle tensioni economiche-finanziarie.
Tipico il caso del mercato dei cambi che ha visto una sensibile riduzione della sua volatilità. La riduzione, già in atto a partire dalla crisi del 2008, ha conosciuto un ulteriore impulso lo scorso anno, quando i tassi d’interesse delle principali valute (e quindi i loro differenziali) sono stati schiacciati verso lo zero e le politiche monetarie sono state ultra-espansive. Anche sul mercato dei titoli pubblici, i forti deficit osservati ovunque, hanno reso meno anomalo l’enorme livello di debito pregresso di alcuni paesi come l’Italia. I massicci acquisti di titoli governativi da parte di tutte le banche centrali hanno poi contribuito a ridurre gli spread e le tensioni.
Sul mercato del credito bancario gli effetti della recessione sui bilanci bancari e sull’offerta di credito sono stati sedati da un uso estensivo di moratorie e garanzie pubbliche, applicate con maggior vigore in Italia, Spagna e Francia. Il livello d’insolvenze non è pertanto aumentato, le banche sono riuscite a continuare a ridurre i rischi creditizi e l’ammontare di crediti deteriorati (non performing loans), mentre le aziende hanno visto aumentare gli impieghi concessi. Anche sul mercato obbligazionario corporate la liquidità è stata abbondante e gli spread sugli high yield si sono nettamente ridotti. Persino i paesi in via di sviluppo sono riusciti finora a finanziare i loro crescenti debiti. Infine, i mercati azionari e in particolare quelli americani, dopo una brusca caduta all’inizio della pandemia, hanno continuato la loro corsa oramai decennale in una continua staffetta fra titoli growth e titoli value (stabili con un basso rapporto prezzi/utile e prezzi/valore contabile).
Le prospettive con il ritorno alla normalità
Ora, però, l’uscita della crisi potrebbe dimostrarsi più insidiosa e asimmetrica. Le strategie vaccinali e i risultati conseguiti mostrano andamenti divergenti nelle diverse aree geografiche. Le politiche fiscali paiono, almeno per intensità, alquanto differenti fra le due sponde dell’Atlantico (si veda l’American Rescue Plan da 1.900 miliardi di dollari varato di recente dal Congresso Usa). Così l’Ocse prevede che quest’anno l’economia americana cresca a una velocità quasi doppia rispetto a quella europea (6,5 contro 3,9 per cento), mentre i mercati sono in agitazione per i rischi d’inflazione negli Usa e l’enorme debito che il governo americano dovrà emettere. Alcune aste di titoli pubblici hanno già avuto qualche problema di collocamento e i tassi sui Treasury bond a dieci anni sono schizzati sopra l’1,70 per cento. Nel frattempo, la volatilità del mercato azionario misurata dall’indice VIX ha sforato i 40 punti.
Tuttavia, ciò che più preoccupa i mercati è che i bilanci delle banche centrali negli ultimi anni si sono gonfiati di titoli pubblici, che possono mettere in discussione l’indipendenza e l’autonomia delle autorità monetarie. Il rischio è che vada persa la credibilità conquistata nel 1981 da Paul Volcker, che si dimostrò pronto a fare qualsiasi cosa pur di combattere l’inflazione allora galoppante, così come nel 2012 quella guadagnata da Mario Draghi nella difesa dell’euro.
Ad aumentare la confusione sta il fatto che negli ultimi anni alle banche centrali, oltre al controllo dell’inflazione e alla stabilità del sistema finanziario, sono stati affidati molti altri compiti, quali la lotta alla disoccupazione (Usa), il controllo dell’intera curva dei tassi (Australia), il prezzo delle abitazioni (Nuova Zelanda), il cambiamento climatico (Ue). Da qui la necessità di ristabilire le priorità e soprattutto di riconfermare un’uscita molto graduale dalle politiche ultra-espansive di questi anni.
Anche sul fronte dei debiti privati la fine degli anestetici deve avvenire in maniera molto graduale. Apprezzabile da questo punto di vista la proposta di Abi e di Confindustria di estendere le moratorie e allungare a 15 anni la durata delle garanzie pubbliche sui crediti concessi. Il pericolo di finanziare qualche azienda “zombi” tutto sommato è inferiore a quello di non lasciare il tempo a quelle “vive” di poter ripagare i debiti accumulati. Ancora più delicata la situazione dei paesi emergenti che nei mesi scorsi hanno già visto il default di Zambia, Argentina, Belize, Ecuador, Libano e Suriname.
In fondo, sarebbe davvero un peccato se dopo aver messo in pratica, come non mai, politiche ultra-keynesiane, ci dimenticassimo della grande lezione che l’economista inglese ci ha lasciato nel suo libro “Le conseguenze economiche della pace”.
Come sanno molti medici, il problema spesso non è quello di uscire vivi da una sala operatoria, ma il processo riabilitativo successivo, quando il corpo deve riprendere le proprie funzioni.