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Home Economia

Economia. La ripartenza del lavoro passa attraverso le politiche attive

Redazione di Redazione
8 Luglio 2021
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce,info

DI MASSIMO TADDEI, laureato in Economia e Commercio a Genova, con una tesi sulla dimensione economica e sociale della disuguaglianza in Italia.

Per garantire una rapida ripresa dell’economia sono cruciali le politiche attive del lavoro, in particolare nella formazione dei lavoratori. Ma in Italia si investe poco in questo campo. E anche dal punto di vista organizzativo le lacune sono tante.

Lavoratori “congelati” dalla pandemia

Nell’ultimo anno e mezzo molti lavoratori si sono trovati nella condizione di essere occupati pur non avendo svolto alcuna attività a causa della pandemia. Alcuni di loro sono “congelati” in attesa che le cose tornino come prima, consapevoli che il proprio settore ripartirà, mentre altri si trovano sospesi in un limbo in cui risultano come occupati e stipendiati, sostenuti per esempio dalla cassa integrazione a zero ore, ma senza alcuna prospettiva di ritorno al lavoro una volta che l’emergenza sarà terminata e le misure di sostegno al reddito verranno azzerate.

Per garantire una ripartenza rapida dell’economia, è fondamentale agire subito per ricollocare questi lavoratori, verificando le loro aspirazioni e le loro competenze e dando loro la possibilità di acquisirne di nuove, in modo da trovare un’occupazione in un settore diverso.

In questo contesto si inseriscono le politiche attive, ossia tutta quella serie di interventi messi in atto per collocare e ricollocare i lavoratori, offrendo opportunità di formazione, assistendo le aziende nel reclutare i lavoratori e fornendo un supporto a tutto tondo a coloro che incontrano ostacoli nell’inserimento all’interno del mercato. Sono politiche fondamentali sia per favorire un incontro più rapido ed efficace tra la domanda e l’offerta di lavoro, sia per rendere il mercato più inclusivo, aiutando coloro che escono sconfitti dalla distruzione creatrice causata dall’evoluzione delle competenze e dei processi organizzativi.

Secondo l’Employment Outlook 2021 dell’Ocse, durante la pandemia la maggior parte dei paesi avanzati ha provato a migliorare il proprio sistema delle politiche attive. Il 65 per cento dei paesi Ocse ha aumentato la propria spesa in servizi per il mercato del lavoro nel 2020 e il 70 per cento ha investito di più in politiche attive. Circa metà dei paesi pianifica di aumentare ulteriormente il budget per entrambe nel 2021.

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Cosa è mancato nel sistema italiano

In Italia, la spesa per le politiche attive è cresciuta, anche se non sono state stanziate risorse per le assunzioni nei servizi pubblici per l’impiego, un aumento di personale che avrebbe potuto permettere di gestire in maniera più efficace il più alto numero di persone senza lavoro durante la crisi. La spesa per i servizi per l’impiego, invece, non è stata aumentata.

Leggi anche: Cassa integrazione “Covid”, un primo bilancio*
Come mostrato in figura 2, la spesa italiana in politiche per il mercato del lavoro resta tra le più basse all’interno dei paesi europei: nel 2018, gli investimenti per ogni disoccupato in politiche attive erano l’8 per cento del Pil pro capite, mentre quelli in servizi per l’impiego erano prossimi allo zero (0,04 per cento del Pil pro capite).

I problemi delle politiche attive per il lavoro, però, non si fermano solo alle poche risorse. Dal punto di vista organizzativo, queste politiche sono di responsabilità delle regioni, coordinate a livello nazionale dall’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal). Un’autonomia regionale coordinata a livello nazionale sembrerebbe un aspetto positivo della governance italiana: l’Ocse sottolinea, per esempio, che il decentramento delle politiche attive è fondamentale per garantire la flessibilità necessaria per tenere in considerazione le differenze territoriali. Di fatto, però, l’assenza di una linea nazionale adeguata (l’Anpal è bloccata in un limbo normativo a causa della bocciatura del referendum costituzionale del 2016) fa sì che ogni regione si muova in maniera indipendente, creando, come nel caso di altre materie di competenza regionale, un forte divario tra le aree del paese.

Inoltre, la mancanza di una legislazione unitaria rende il quadro ancora più complesso: l’Italia è tra i paesi in cui le condizionalità relative a specifiche politiche attive del lavoro sono regolate da tre o più norme, di cui almeno una adottata direttamente dal parlamento. Questo significa che definire e disegnare le politiche attive in maniera flessibile diventa molto più complicato a causa del labirinto di istituzioni e norme cui fare riferimento.

Una minore flessibilità in periodi di crisi significa di fatto minore efficienza e minore capacità di creare lavoro tramite le politiche attive.

L’assenza o quasi di politiche attive per il lavoro in Italia ha fatto sì che la maggior parte dei disoccupati non abbia contattato un centro per l’impiego, pubblico o privato, durante la pandemia. Lo mostrano chiaramente i dati in figura 3: solo il 18 per cento dei disoccupati italiani si è rivolto a un centro per l’impiego pubblico, contro una media Ocse del 41 per cento. Anche l’utilizzo dei centri privati è di gran lunga inferiore: 11 per cento contro il 25 per cento della media Ocse.

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Ripartire dalla formazione

Leggi anche: Covid e lavoro, cambiamenti transitori o strutturali?*
L’Employment Outlook 2021 sottolinea come il rilancio del mercato del lavoro dovrebbe ripartire dalla formazione. Anche prima della pandemia, però, molti sistemi di formazione professionale non sono stati in grado di fornire un servizio efficiente che migliorasse in maniera sostanziale le competenze. I lavoratori a rischio automazione, per esempio, sono una categoria che molto più di altre avrebbe bisogno di ridisegnare le proprie competenze, ma hanno una probabilità di partecipare a programmi di formazione di 30 punti percentuali inferiore rispetto agli occupati in settori con minore rischio di sostituzione da parte delle macchine. Inoltre, molti dei corsi di formazione si limitano ai programmi obbligatori sulla sicurezza, che rappresentano circa un quinto dell’intera attività di training nei paesi Ocse. Nel 2015, solo il 32,3 per cento delle aziende in Italia aveva intrapreso programmi di formazione diversi da quelli sulla sicurezza.

La formazione avrebbe dovuto essere alla base del reddito di cittadinanza, che avrebbe dovuto fornire ai disoccupati un sostegno economico, ma soprattutto la possibilità di migliorare le proprie competenze per il reinserimento nel mercato del lavoro. Questo aspetto è stato quasi del tutto abbandonato, ma la crisi pandemica ha ancora una volta sottolineato la sua importanza e in una ripresa a rilento per mancanza di politiche attive adeguate, la sua quasi totale assenza all’interno del mercato del lavoro italiano si farà sentire.

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