Tratto da lavoce.info
DI RONY HAMAU, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente di Intesa Sanpaolo ForValue
I dazi Usa contro la Cina hanno danneggiato soprattutto i consumatori americani, mentre aumentano commercio internazionale ed esportazioni di altri paesi. Sono effetti da valutare con attenzione prima di avviare nuove crociate.
Gli effetti della guerra dei dazi
Fra il 2018 e il 2019, Donald Trump intraprendeva una guerra commerciale contro la Cina che non aveva uguali nella storia americana e sorpassava in termini di Pil le misure protezionistiche introdotte negli anni Trenta del secolo scorso (la cosiddetta legge Smoot-Hawley). L’iniziativa trumpiana interrompeva una lunga tendenza che, dalla Seconda guerra mondiale, vedeva una costante riduzione delle barriere commerciali e la liberalizzazione degli scambi internazionali. La manovra colpiva 350 miliardi di dollari di beni e servizi, pari al 17 per cento delle importazioni americane, e induceva la Repubblica popolare cinese a reagire imponendo dazi su beni per 100 miliardi di dollari, pari al 9 per cento delle esportazioni americane. La guerra non aveva eguali nella storia non solo per dimensione ma anche per intensità, giacché le tariffe medie sono state quasi quintuplicate.
L’amministrazione Biden non ha fatto altro che confermare la politica del suo predecessore, poiché gli accordi siglati nel gennaio del 2020, detti “Fase One”, prevedevano di non aumentare le tensioni commerciali sino-americane, ma anche di lasciare intatte tutte le misure adottate nei due anni precedenti.
A questo punto vale la pena chiedersi quali sono stati gli effetti di questa guerra e chi ha pagato il prezzo più alto in termini di benessere.
Cosa è successo al commercio internazionale e agli altri paesi del mondo? Una serie di studi ha cercato di rispondere a queste domande e le conclusioni non appaiono affatto scontate. Anzi, offrono un importante spunto di riflessione su altre guerre commerciali che l’Occidente sta combattendo, o si appresta a intensificare, quali quelle contro la Russia, l’Iran, la Bielorussia.
In primo luogo, esiste una vasta evidenza empirica che mostra come il prezzo più alto, in termini di benessere, sia stato pagato dai consumatori americani, che hanno visto aumentare i prezzi dei beni importati dalla Cina per un ammontare vicino all’incremento delle tariffe, mentre gli esportatori cinesi non hanno ridotto i loro prezzi e i loro profitti. Nel gergo economico il pass-through delle tariffe sui prezzi al consumo è stato quasi completo. Il risultato non era affatto scontato per un paese di grandi dimensioni come gli Usa che dovrebbe godere di un forte potere di mercato. Invece, l’evidenza raccolta mostra come la guerra commerciale abbia ridotto il reddito disponibile sia dei consumatori cinesi che, soprattutto, di quelli americani, anche se l’entità della caduta non è stata troppo marcata in termini di Pil.
Il commercio internazionale cresce
Molto interessanti sono anche i risultati sul fronte del commercio internazionale. Se da un lato i dati mostrano, come era logico attendersi, che l’introduzione delle tariffe ha ridotto i flussi di commercio fra la Cina e gli Stati Uniti, meno scontato è il fatto che il resto del mondo ha mediamente beneficiato della guerra sino-americana. Molti produttori di paesi terzi – per esempio quelli messicani o vietnamiti – sono infatti riusciti a sostituirsi alle imprese cinesi nel servire la domanda americana, mentre non è successo lo stesso nel caso della riduzione delle esportazioni americane verso la Cina, che sono state rimpiazzate da prodotti nazionali. In termini tecnici, possiamo dire che la maggior parte dei paesi terzi esporta prodotti complementari a quelli americani e sostitutivi a quelli cinesi.
I paesi che hanno guadagnato quote sul mercato americano non hanno poi ridotto le loro esportazione verso gli altri mercati, come era possibile ipotizzare. In altri termini, le maggiori esportazioni messicane verso gli Usa non hanno penalizzato le esportazioni messicane verso gli altri paesi, che sono addirittura aumentate. È allora probabile che il Messico, come il Vietnam e tanti altri paesi, sia riuscito ad aumentare la propria produzione senza alzare i costi di produzione o addirittura abbia potuto ridurli diventando più efficiente e sfruttando economie di scala. In termini tecnici, è possibile che questi paesi abbiano operato lungo una curva di offerta inclinata negativamente.
Pur in presenza di forti differenze tra i diversi paesi, il risultato complessivo è stato che l’introduzione dei dazi americani e cinesi ha finito per provocare un aumento del commercio internazionale e non una sua contrazione. Anche questo risultato non era affatto scontato, giacché molti commentatori avevano ipotizzato che la guerra commerciale di Trump avrebbe portato alla fine della globalizzazione.
La riflessione da fare
Tutto ciò dovrebbe forse indurre gli Stati Uniti a ripensare la politica commerciale nei riguardi della Cina, e più in generale verso gli altri paesi, e a usare con grande parsimonia dazi e sanzioni per “punire” paesi che si comportano in maniera ritenuta “aggressiva” o incompatibile con i “principi democratici”.
Particolarmente rilevanti per l’Europa sono i rapporti con la Russia di Putin, che in questo momento si mostra parecchio aggressiva nei confronti dell’Ucraina. Pesanti sanzioni economiche contro la Federazione russa potrebbero alla fine danneggiare soprattutto i consumatori e le imprese europee, già pesantemente colpiti dai rincari del gas, mentre a beneficiarne sarebbero i produttori di energia, Stati Uniti inclusi. Ci si può allora chiedere se il blocco del gasdotto Nord Stream 2 sia opportuno e se non ci siano altri modi per contrastare l’aggressività di Putin e compensare l’Ucraina del danno economico che subirebbe dalla riduzione delle royalty che oggi le derivano dall’essere il principale canale di passaggio del gas russo verso l’Unione europea.
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