Tratto da lavoce.info
DI MARZIO GALEOTTI, Professore ordinario di Economia politica presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli studi di Milano
E ALESSANDRO LANZA, Direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei
La crisi energetica di oggi sembra diversa da quelle del passato. A determinarla contribuiscono vari fattori, dalle mire imperiali russe alla transizione energetica cinese. Superarla richiede un sempre maggiore coordinamento, almeno a livello europeo.
Il ruolo della Russia
Il tema del caro energia ritorna ciclicamente nel dibattito politico e in particolar modo in quello europeo. La questione è tra le più sentite in questo momento, quando le economie stanno faticosamente uscendo da un biennio caratterizzato da una difficile pandemia e da ciò che ne consegue. Giova chiedersi, per iniziare, se questa situazione di prezzo debba essere considerata davvero straordinariamente elevata o se, come spesso accade, ci fa velo il fatto che sia più vivido quello che stiamo vivendo rispetto al passato, magari non tanto lontano.
Il prezzo del petrolio (Brent, per comodità) può essere utilizzato come esempio. Senza necessità di ricostruire la storia e considerando unicamente gli ultimi 20 anni, è possibile affermare che non viviamo certamente un periodo in cui il prezzo del petrolio (e di tutte le commodities connesse) è particolarmente elevato. Se il prezzo del Brent oscilla in questi ultimi mesi intorno ai 70 dollari/barile, dobbiamo ricordare che, in termini reali, ha ampiamente superato i 100 dollari/barile nel 2011 – 2013.
Resta dunque da chiederci che cosa ci sia di diverso in questa crisi e perché appare così profonda rispetto alle tante che abbiamo vissuto.
Un elemento distintivo – e probabilmente ansiogeno per il mercato – è la complessità. Nelle crisi passate, le motivazioni – anche se opache – hanno riguardato strettamente la dinamica domanda/offerta di petrolio. Niente che non si potesse comprendere alla luce dei non sempre chiarissimi communiqué dell’Opec. Questa volta invece si incrociano piani diversi, interconnessi, ma insieme autonomi, che mettono il mercato in gravi ambasce.
Vi è innanzitutto un problema politico che riguarda la volontà imperiale della Russia di Putin, volontà esercitata innanzitutto con l’annessione della Crimea ed ora con la pressione esercitata verso l’Ucraina e la Bielorussia. La debolezza, certamente più politica che militare degli Stati Uniti, non aiuta a mettere un freno all’espansionismo russo ed una certa acquiescenza nella gestione del gasdotto Nord Stream non sembra aiutare la politica di chi vuole ergere un muro all’espansionismo russo.
D’altra parte, la Nato non è stata a guardare. Paesi ex Urss (come tutti i paesi baltici), una volta riacquistata l’indipendenza, hanno aderito alla Nato, aggiungendosi a paesi (Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia, Slovacchia) che del cosiddetto blocco sovietico facevano parte. Per onestà di analisi è giusto dunque ricordare come il virus dell’espansionismo abbia colpito la Russia di Putin, ma anche la Nato in chiave anti-russa.
Non vanno infine dimenticate tutte quelle considerazioni che vengono dalla Francia di Macron (ma che appartengono ad una antica tradizione francese che data oltre 50 anni) e che vede con le dovute cautele una Russia neo-imperiale come l’ultimo baluardo tra l’Europa, ormai chiaramente sotto assedio, e la Cina. Gli europei peraltro soffrono di miopia e tendono a dimenticare che Russia e Cina hanno un confine in comune, confine sul quale si è discusso negli ultimi 200 anni, e non è un caso che il nonno dell’attuale dittatore nord-coreano sia stato cresciuto nelle scuole di partito dell’URSS e promosso dittatore in Corea ovvero un cuneo sovietico e poi russo nella Cina.
Riflessi sul mercato dell’energia arrivano anche dal comportamento della Cina, che è una importante concausa della nostra attuale crisi anche da altri punti di vista. Per esempio, ha deliberatamene complicato la supply chain di una infinità di prodotti anche di basso e talvolta bassissimo valore, creando innumerevoli problemi di disponibilità a industrie europee come quella automobilistica, che di queste forniture ha assoluta necessità.
Il mercato del gas naturale soffre anche dell’incertezza legata alle previsioni di transizione ecologica della Cina. L’obiettivo di neutralità carbonica annunciato da Pechino manifesta la sua determinazione a promuovere lo sviluppo verde e a basse emissioni di carbonio. Il paese mira a raggiungere il picco delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e la neutralità entro il 2060. Tutto questo significa evidentemente meno domanda di carbone, più rinnovabili e più gas e, date le dimensioni del paese, non può che farsi sentire sul mercato.
Rispetto al tema gas naturale va segnalato inoltre che di recente la Russia ha firmato un contratto di 30 anni per la fornitura di gas alla Cina attraverso un nuovo gasdotto e – elemento distintivo ed interessante – regolerà le nuove vendite di gas in euro. Con questo contratto la Russia rafforza un’alleanza energetica con Pechino. Gazprom, che ha il monopolio delle esportazioni russe di gas tramite uno specifico gasdotto, ha accettato di fornire 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno alla principale società energetica statale cinese CNPC. Il programma prevede il completamento del piano previsto anni fa con realizzazione di un gasdotto che collegherà la regione dell’Estremo Oriente russo con la Cina nord-orientale, i cui lavori dovrebbero iniziare tra due o tre anni.
Peraltro la Russia invia già gas alla Cina tramite il gasdotto Power of Siberia che ha iniziato a funzionare nel 2019. Il paese di Putin fornisce anche 16,5 miliardi di metri cubi di gas sotto forma di gas naturale liquefatto (GNL). E’ interessante osservare inoltre che la rete Power of Siberia non è collegata ai gasdotti che inviano gas all’Europa e questo ha permesso di evitare le polemiche connesse alle discussioni su l’aumento dei prezzi del gas a causa della scarsità di forniture. Secondo i piani precedentemente elaborati, la Russia mirava a fornire alla Cina 38 miliardi di metri cubi di gas tramite gasdotto entro il 2025. Il nuovo accordo, che ha coinciso con una visita del presidente russo Vladimir Putin alle Olimpiadi invernali di Pechino, aggiungerebbe altri 10 miliardi di metri cubi, aumentando così le vendite di gas alla Cina con contratti a lungo termine.
A gennaio, le forniture russe di gas all’Europa si sono ridotte del 40 per cento rispetto alle attese, recuperando leggermente (-20 per cento) negli ultimi giorni. Non è sbagliato sostenere che la Russia tragga qualche vantaggio del suo potere di oligopolista se consideriamo che il 50 per cento delle importazioni extra-europee verso l’Ue vengono dalla nazione di Putin. È anche vero però che i paesi che acquistano gas dalla Russia, la Germania per esempio, nell’ultimo semestre lo hanno riveduto a paesi terzi ricavandone profitti notevoli. Inoltre, ironia della sorte, anche esportando meno gas, quest’inverno il forte aumento dei prezzi sarà probabilmente sufficiente a non ridurre le entrate di Mosca. Che, paradosso finale, dalla crisi potrebbe addirittura guadagnarci.
L’Europa, e l’Italia in particolare, possono rispondere alla riduzione di importazioni dalla Russia in diversi modi. Aumentare le importazioni da paesi già collegati da gasdotti (Algeria, Libia, Olanda, Qatar come Gnl). Da non dimenticare il Tap, che porta 10 miliardi di metri cubi all’anno e che abbiamo evitato di bloccare per un soffio. L’Italia potrebbe poi incrementare la produzione domestica, che vale attualmente il 10 per cento dei consumi. Analisi indipendenti suggeriscono che questi 7 miliardi di metri cubi prodotti potrebbero diventare 10 senza troppa fatica e arrivare a 20 con opportuni investimenti..
Secondo Assorisorse, sotto i mari italiani ci sarebbero riserve di oltre 90 miliardi di metri cubi di metano a basso costo: l’estrazione costerebbe a 5 centesimi al metro cubo, mentre l’importazione costa fra i 50 ed i 70.
Un’altra questione da tener presente per quanto riguarda il costo della transizione è legata alla dinamica del mercato dei permessi negoziabili CO2. Il loro prezzo ha raggiunto i 100 dollari a tonnellata, raggiungendo un livello mai visto.
In definitiva: questa è una crisi diversa dalle altre, con molteplici aspetti alcuni dei quali ancora in divenire, che necessita sempre di maggiore coordinamento almeno a livello europeo.
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