– Il mese di novembre del corrente anno 2008 ci lascia dopo averci regalato due memorabili sentenze della magistratura italiana: quella, definitiva, della Corte di Cassazione relativa all’interruzione dell’ alimentazione di Eluana Englaro con sondino e quella del giudice per l’udienza preliminare di Torino, Francesco Gianfrotta, che ha rinviato a giudizio per «omicidio volontario con dolo eventuale» (la relativa pena prevede fino a 21 anni di carcere) l’ amministratore delegato della Thyssenkrupp, Harald Espenhahn, a seguito della morte di sette operai nel rogo della sua fabbrica torinese.
Sulla prima non c’è molto da dire. Da un lato si registra l’opinione (che condivido) di illustri scienziati, i quali ritengono che, soprattutto dopo sedici anni, lo stato vegetativo sia irreversibile, e non abbia quindi senso impedire a un padre angosciato di lasciare finalmente che la natura segua il suo corso. Dall’altro lato si registra la protesta delle gerarchie ecclesiastiche, secondo le quali va respinta una tesi che spingerebbe a considerare l’uomo non come un vero soggetto, ma come un oggetto. E il cardinale Ennio Antonelli, presidente del Consiglio pontificio per la famiglia, si è spinto fino a rivolgere un appello al governo perché faccia un decreto che impedisca l’interruzione dell’alimentazione dei malati in stato vegetativo. Sono posizioni rispettabili (la seconda meno della prima), che però non riscuotono il consenso della maggioranza degli italiani, cattolici compresi.
Thyssen
Per apprezzare adeguatamente la sentenza del Tribunale di Torino giova partire dalle statistiche, secondo le quali ogni anno in Italia si contano 1.200 morti nei 2.500 incidenti sul lavoro. Anche per questo merita il più vivo plauso il lavoro svolto a Torino dal procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, coadiuvato dai sostituti Laura Longo e Francesca Traverso. Essi sono riusciti ad ottenere il rinvio dell’imputato in Corte d’Assise, ed è la prima volta che ciò si verifica, in Italia. E grande è stata la soddisfazione di Guariniello, il quale ha dichiarato: «E’ un segnale a tutto il mondo del lavoro, che si aspetta la fine delle morti bianche».
Giacché proprio di questo si tratta: di spingere i datori di lavoro a non lesinare sugli investimenti atti a prevenire gli incidenti sul lavoro. La vita, anche dell’ultimo degli immigrati, vale infinitamente di più del denaro risparmiato. In una società che si definisce cristiana questo concetto dovrebbe essere ovvio, ma di fronte ai fatti è lecito chiedersi fino a che punto sia cristiana la nostra società.
Ben venga quindi l’ intervento della magistratura, che spesso è l’ ultima risorsa sulla quale possano fare assegnamento i lavoratori e le fasce più deboli della società. Anche per questo è diventato di moda, da sedici anni a questa parte, mettere sotto accusa i magistrati con la mistificazione del cosiddetto “giustizialismo” (chiamato in causa, in questa occasione torinese, dal giuslavorista Michele Tiraboschi).
Questo termine è assai caro ai garantisti “pelosi”, che ne sfruttano l’assonanza con l’odioso verbo «giustiziare», adattando ai loro fini un nome che, correttamente, designa soltanto un preciso movimento politico argentino. Quanto al garantismo, mi attengo alla persuasiva definizione che ne ha dato un giurista progressista come Luigi Ferrajoli. Nel suo volume Diritto e ragione (prefazione di Norberto Bobbio) pubblicato da Laterza nel 1989, Ferrajoli ha parlato in questi termini del garantismo: «E tuttavia, in un senso non formale e politico ma sostanziale e sociale di “democrazia”, lo stato di diritto equivale alla democrazia: nel senso che riflette, al di là della volontà della maggioranza, gli interessi e i bisogni vitali di tutti. In questo senso il garantismo, siccome tecnica di limitazione e di disciplina dei pubblici poteri diretta a determinare ciò che essi non devono e ciò che essi devono decidere, può ben essere concepito come il connotato (non formale, ma) strutturale e sostanziale della democrazia: le garanzie, sia liberali che sociali, esprimono infatti i diritti fondamentali dei cittadini contro i poteri dello stato, gli interessi dei deboli rispetto a quelli dei forti, la tutela delle minoranze emarginate o dissenzienti rispetto alle maggioranze integrate, le ragioni del basso rispetto alle ragioni dell’alto».
Gli «interessi dei deboli rispetto a quelli dei forti», appunto. Tra i deboli, colpiti dai forti, devo annoverare in questo momento, assicurandogli la mia solidarietà, l’amico on. Leoluca Orlando, galantuomo a prova di bomba ed ex sindaco antimafia di Palermo, sul quale si è abbattuto l’ostracismo di una maggioranza arrogante, che gli ha potuto rovesciare addosso una sola accusa: quella di appartenere all’Italia dei Valori di Di Pietro. Per questo, soltanto per questo, egli non è stato ritenuto degno della presidenza della Commissione per la vigilanza sulla Rai, carica che spettava alla minoranza e per la quale la minoranza aveva scelto Orlando.
di Alessandro Roveri
Libero docente
dell’Università di Roma