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C’era una volta la diversità comunista

Redazione di Redazione
14 Gennaio 2009
in L'opinione
Tempo di lettura : 5 minuti necessari
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– Come dimostra il titolo stesso di questo articolo, chi scrive non attacca soltanto il berlusconismo, da lui giudicato quale tabe primaria della società italiana di oggi, ma sente il dovere di censurare, e severamente, anche l’attuale opposizione a Berlusconi. Ciò perché riconosce che è vero che c’era una volta, fino agli anni ’80 (grosso modo fino a Natta), la diversità morale dei comunisti italiani del Pci, riconosciuta anche dagli avversari, e che essa, oggi, nel Pd si è, come dire?, afflosciata (fatta eccezione per le varie nicchie sedicenti comuniste, in perpetua gara a chi è più “di sinistra”, ed escluse dai centri di potere, ossia immuni dalle tentazioni). E’ in tal modo sfumata la rendita d’immagine di cui godeva il Pci, ed è un peccato per i tanti sindaci del Pd più che degni di stima (faccio solo tre nomi: Cacciari, Chiamparino e Cofferati).
Il discorso, come è ovvio, riguarda il Pd, ossia l’arduo tentativo di amalgamare in quel partito ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, per la verità ancora separati in materia di apparati dirigenti, di collocazione in Europa e di questioni di bioetica come l’embrione e il caso Englaro (la bigotta Binetti, del Pd, si è affrettata a solidarizzare con il ministro Sacconi, ex socialista, che ha ordinato agli ospedali di ignorare la Corte di cassazione e di chiudere i battenti dinanzi a papà Englaro; ha ragione Federico Orlando, che su “Europa” parla di clerico-socialismo). E riguarda, questo discorso, in particolare gli ex comunisti. Sono ormai troppi, tra loro, gli inquisiti per reati comuni, anche se non si può parlare di una nuova tangentopoli come quella craxiana del 1992-1993. Allora i politici comandavano sugli imprenditori, ora sono questi a comandare sui politici, trasformandoli in loro manutengoli. Allora furono i partiti come tali a coprirsi di fango, mentre oggi gli “imputati” sono gli amministratori locali: sindaci e soprattutto assessori, nominati da quelli, eletti sì direttamente dai cittadini, ma colpevoli di non aver saputo scegliersi collaboratori irreprensibili.
Il mio non è moralismo. So bene che ai politici si richiede di essere preparati e capaci. Sarebbe moralismo chiedere loro di essere onesti e basta. Si chiede ai politici di essere sia onesti sia capaci. Dovrebbe saperlo bene il Pd, le cui amministrazioni al potere da sessant’anni in Emilia, Toscana, Liguria, Toscana, Marche ecc. sono esposte al rischio della corruzione per il solo fatto del mancato ricambio delle classi dirigenti. Non è bene che negli enti locali continuino a governare sempre le stesse persone, e che non siano entrate, ad affiancarle o a sostituirle, nuove leve di giovani, perché gli elettori di sinistra, a differenza di quelli di destra, sono molto sensibili alla questione morale e il rischio della perdita di voti e del potere è sempre dietro l’angolo. Lo si capirà nella provincia di Rimini?
Giacché c’è un nesso tra onestà ed efficienza. E’ proprio l’amministratore meno preparato, colui il quale trova nella propria corruttibilità la gratificazione del suo far politica. Ed è il politicante che ha capito come l’attività politica possa offrire troppe occasioni lecite, e spesso illecite, di arricchimento personale, colui il quale si abbandona senza ritegno alla corruzione. E se ne infischia, se con il suo comportamento può provocare domani il successo elettorale degli avversari. Tanto, si dice, non esistono più una destra e una sinistra, e di notte tutte le vacche sono nere, come nell’assoluto di Schelling giudicato da Hegel. Si può sempre passare dall’altra parte, notoriamente meno sensibile alla questione morale.
Se allarghiamo l’orizzonte, non possiamo non inquadrare questi eventi nel l’imbarbarimento generale della società, di cui la politica fa parte. Si tratta, cioè, di un mutamento complessivo della mentalità e del senso comune, che investe anche la casta dei politici e i troppi privilegi di cui gode, a partire dai parlamentari. Trent’anni di sottocultura televisiva, di questa melassa che confonde insieme fanciulle discinte e cardinali, scurrilità e festival canori, guerre e grandi fratelli, veline e furbetti del quartierino, turpiloqui e isole dei famosi, tutti sullo stesso piano, hanno contribuito al formarsi di un’opinione pubblica qualunquista, che ammira soltanto gli arroganti e gli arricchiti, quale che sia l’origine del loro denaro, e alla quale non importa nulla della Costituzione. Che vuole soltanto divertirsi ai livelli più squallidi, e che nulla sa né vuole sapere di cose vere né di cose veramente belle.
Ed occorre tutta la supponenza intellettualistica di D’Alema, per ritenere che la televisione berlusconiana poco influisca sui risultati elettorali, in un Paese nel quale pochi leggono e i più si formano un’opinione politica guardando dei telegiornali che ti fanno vedere quello che vogliono loro, per non dire dei comizi elettorali quotidiani come quelli di Emilio Fede. E’ invece così che si è formato lo zoccolo duro degli elettori berlusconiani, pronti a credere alla mistificazione delle persecutrici “toghe rosse” (che adesso dovrebbero essere diventate “toghe nere”!) e ciechi dinanzi alle realtà scomode della loro parte. Qui sta, secondo chi scrive, la differenza tra i due elettorati: pronto ad indignarsi, il primo, per le cadute morali dei suoi, tanto da disertare le urne, e del tutto indifferente, il secondo, alla questione morale, al conflitto degli interessi e alle leggi “ad personam” del capo. Al quale forse Bush si è dimenticato di spiegare che negli Stati Uniti non si può parlare di “avvocato dell’accusa” contrapposto all’interesse privato dell’avvocato della difesa, come gli piacerebbe che si facesse in Italia; là le udienze, per esempio, di Chicago, cominciano con l’espressione «Lo Stato dell’Illinois contro Pinco Pallino», perché è fuori discussione che l’accusa è davvero pubblica: rappresenta tutta la comunità, e ne difende il diritto a non subire danno dall’imputato di turno.
Non sarà facile, per Veltroni, risalire la china della questione morale. Occorrerà ricuperare il messaggio di Enrico Berlinguer in una Italia che se ne è poco alla volta, tutta quanta, Pci compreso, cinicamente allontanata. Non sarebbe giusto dubitare della buona volontà di Veltroni, quale quella da lui dimostrata con la relazione e le conclusioni della riunione della Direzione del 19 dicembre. Per sua fortuna, l’assemblea ha respinto il documento presentato dal sempre democristiano Follini, che proponeva la rottura dell’alleanza con Di Pietro, alleanza che è ciò che fa più paura a Berlusconi (e infatti il Cavaliere non si stanca di chiedere a Veltroni la rottura con l'”eversivo” ex magistrato, prendendo a pretesto le intemperanze verbali di quello).
Invano l’amico mio, il ferrarese Dario Franceschini, che ho recentemente incontrato, aveva invitato il Follini, la sera del 19 dicembre, a non mettere ai voti la sua proposta, spiegandogli che la sconfitta avrebbe ulteriormente indebolito la sua tesi, avanzata dopo lo strepitoso successo dell’Italia dei valori nelle elezioni regionali abruzzesi. Nel voto sulla mozione Follini si è astenuto (e ciò è assai inquietante) D’Alema. Ma, come ho detto a Franceschini: se, senza l’alleanza con il Pd, Di Pietro non può andare da nessuna parte, è altrettanto vero che senza l’alleanza con Di Pietro, ossia con la cultura della legalità, non andrebbe da nessuna parte nemmeno il Pd. Checché ne pensino D’Alema e Follini.

di Alessandro Roveri
Libero docente dell’Università di Roma

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