L’INTERVISTA
– La banca locale è nata principalmente per servire l’economia del territorio, a differenza di quelle nazionali e internazionali che hanno fini più speculativi. Ma entrambe ci devono essere.
Stefano Zamagni è riminese; è preside della facoltà di Economia e commercio dell’Università di Bologna. Ed è uno studioso di rango mondiale. Tra i tanti libri scritti, forse il manuale “Economia” è il più blasonato. Nella migliore tradizione anglo-sassone: chiaro, semplice, non meno che divertente.
A chi gli chiede se hanno ragione o no a lamentarsi gli industriali della politica del credito delle banche, risponde: “Non si può parlare genericamente di banche. Vanno distinte quelle del territorio e quelle di carattere nazionale, o internazionali. Per queste le ultime non c’è l’interesse a sostenere la piccola e media impresa del territorio. Operano su mercati speculativi; mentre sa che con la piccola e la media azienda i guadagni sono ridotti.
Invece, le banche del territorio nascono per servire le imprese dove operano. E le statistiche lo affermano. Le banche di credito cooperativo, le popolari, le casse di risparmio hanno aumentato le concessioni del credito e non ridotto.
Detto questo, va anche rimarcato che un sistema economico vitale ha bisogno sia delle grandi banche, sia delle piccole. Purtroppo, in Italia, negli ultimi anni si è continuato a dire che le piccole erano inefficienti, anti-economiche, malgestite. Erano pensieri frutto di un’ubriacatura concettuale, di cui ora ne stiamo pagando le conseguenze”.
Ma dall’osservatorio di Zamagni, quando finirà la crisi?
“La crisi, a livello di dimensioni è simile a quella del ’29, però non è della stessa natura. Allora era legata all’economia reale. Nasce un anno prima in Germania, che insieme a quella americana rappresentava l’economia più importante del mondo. I debiti di guerra mandarono in crisi il sistema tedesco. Gli americani non potendo fare investimenti remunerativi in Germania si ritirarono, tanto da trascinare nella crisi anche l’America. La crisi durò quattro anni perché i governanti non riuscirono a capire la malattia, un po’ come il medico che sbaglia diagnosi.
Oggi, la crisi nasce all’interno del sistema finanziario per le ragioni note a tutti. Solo che il prezzo lo pagano gli altri, imprese, famiglie, e non chi l’ha provocata. E’ quello che in economia si chiama ‘esternalità pecuniaria’. I provvedimenti presi sono serviti a tamponare la falla, ma non assicurano una ripresa sostenuta e duratura. La crisi ha una forma a ‘U’ e non a ‘V’. Nella ‘V‘ raggiunto il punto più basso, si riparte; mentre nella ‘U‘ si resta stazionari per un certo tempo.
Il provvedimento è valso ad impedire la caduta. E’ un intervento di superficie; l’Italia avrebbe bisogno di misure di tipo strutturale che sono tre.
Il primo nodo è il Sud, dove vive il 37% della popolazione italiana. Il problema è più serio di quanto non lo si consideri. Se non riparte trascina indietro anche il resto, a meno che non si dia retta a qualcuno che lo vuole tagliare. Ipotesi, da non prendere neppure in considerazione.
Secondo nodo. E’ il lavoro.. Anche questo è più serio di quanto non si pensi e non va confuso con l’occupazione. L’occupazione è un posto fisso; noi abbiamo una forza lavoro dalla produttività molto bassa rispetto ai nostri competitori.
Il terzo nodo è legato all’innovazione. Negli ultimi anni l’Italia, benché dotata di grandi potenzialità, ha rinunciato ad innovare. E’ chiaro che noi non possiamo competere né con i prezzi di cinesi e indiani e neppure con la grande impresa tedesca e americana che non abbiamo. Dobbiamo riprendere a produrre idee come avvenuto nel dopoguerra. Rimini, nel piccolo, ne è un esempio. Ha innovato nel dopoguerra; ora è ferma. Non può pensare di essere competitiva nel turismo con la leva del prezzo. Tutto questo si è capito e sta alla base del Piano strutturale”.