Tratto da lavoce.info
DI TOMMASO DI TANNO, ha insegnato diritto tributario nelle Università di Roma (Tor Vergata), Siena e Cassino ed è docente al Master Tributario dell’Università Bocconi.
Il contenzioso del passato e situazioni di oggettiva difficoltà spingono per una tregua tra fisco e contribuenti. Le misure introdotte con la legge di bilancio riguardano però solo gli autonomi, con una evidente discriminazione dei lavoratori dipendenti.
Un condono sostanziale
Dopo aver parlato a lungo di pace fiscale (addolcita poi in “tregua fiscale”), il governo Meloni ha detto la sua con una serie di interventi, inseriti nella legge di bilancio 2023 (articolo 1, commi dal 153 al 277, legge 197/2022), volti a definire – sostanzialmente – qualsiasi posizione oggi irregolare nei rapporti finanziari fra Agenzia delle entrate e contribuente. Si è cercato, cioè, con un lavoro certosino e con risultati tecnicamente apprezzabili, di individuare qualsiasi pendenza – già emersa o non – in cui chi è incappato in una irregolarità di versamento ha l’occasione di fare pace col fisco con una salomonica stretta di mano. Si tratta, perlopiù, di irregolarità che non hanno ancora dato luogo a più specifiche constatazioni da parte del fisco, ma di cui può darsi per scontata l’individuazione derivando non da informazioni sottratte o da interpretazioni divergenti ma da atti il cui compimento – indiscutibilmente dovuto e atteso dall’Agenzia – è stato semplicemente omesso. Sono, quindi, posizioni già conosciute dal fisco o che verranno progressivamente dallo stesso apprese mediante riscontri automatici dei mancati versamenti effettuati. Per quanto riguarda, invece, le irregolarità effettivamente constatate e oggetto di contestazione, la sanatoria si applica solo a contenziosi già in corso e che presentano determinate caratteristiche. Insomma: ordinario lavoro di pulizia, si potrebbe dire.
Sennonché l’ordinaria amministrazione è condita – per ciò che non costituisce contenzioso – con strabilianti sconti sotto il profilo sanzionatorio. Le sanzioni (amministrative) vengono infatti del tutto abbattute ovvero, ma solo nel peggiore dei casi, ridotte a un diciottesimo della sanzione minima dovuta: il che vuol dire che – fatta pari al 30 per cento del tributo la sanzione minima mediamente dovuta – ammontano, nel peggiore dei casi, al 1,6 per cento dell’imposta. Inoltre il versamento di tributo e sanzione è perlopiù previsto in 24 mesi (8 trimestri). Si applica un interesse del 2 per cento. Considerato un tasso di inflazione che si muove ormai verso un 10 per cento annuo, non è difficile concludere che la ricchezza effettiva attesa per le casse dello stato è addirittura inferiore all’importo dell’imposta stessa.
Nulla si dispone, quantomeno esplicitamente, sotto il profilo penale. Del resto, era stato più volte dichiarato che la tregua fiscale aveva lo scopo di venire incontro a situazioni di oggettiva difficoltà e che occorreva dare spazio adeguato alle sofferenze generate per tenere conto di svariati fenomeni di crisi indotti prima dalla pandemia e poi dal caro bollette. E ciò senza trascurare la ben nota sistematica equivocità e voracità del fisco nostrano. Sennonché fra le varie sanatorie spunta il comma 174 che fa riferimento a possibili insufficienti versamenti di tributi pur dichiarati come dovuti: quindi non ancora accertati ma facilmente accertabili proprio perché espressamente dichiarati. Va qui rilevato che, se si superano le soglie previste dagli art. 10-bis, 10-ter e 10-quater della normativa penal-tributaria, l’omesso o insufficiente versamento fa scattare l’applicazione di una sanzione penale. Quest’ultima, tuttavia, non si applica qualora l’importo dovuto risulti estinto “anche a seguito delle speciali procedure conciliative (…) previste dall’ordinamento tributario” prima dell’apertura del dibattimento di primo grado (art. 13, comma 1, decreto legislativo 74/2000). E che la sanatoria prevista al citato comma 174 possa considerarsi una “speciale procedura conciliativa” pare davvero ragionevolmente sostenibile. Non un condono formale, quindi, ma uno sostanziale parrebbe proprio di sì.
Una discriminazione per i lavoratori dipendenti
L’insieme delle disposizioni invita a riflettere sullo stato dell’arte della questione fiscale italiana. Da un lato, vi è un passato litigioso e situazioni di oggettiva difficoltà. Salvo che quest’ultima viene soppesata, nei fatti, soltanto per la categoria del lavoro autonomo, cioè per quella di chi dichiara e versa di propria iniziativa. Medesime difficoltà nel vivere quotidiano sono state e sono normalmente affrontate anche da chi soggiace a prelievi operati da terzi. Ma costoro sono, ahinoi, sistematicamente esclusi da provvedimenti di clemenza. Questa funziona, infatti, per chi non ha versato le ritenute operate. Ma non produce benefici per chi le ritenute le ha solo subite.
C’è da domandarsi se questo andazzo non configuri una violazione sostanziale del principio costituzionale di parità di diritti fra cittadini (art. 3 Cost.), oltreché dell’ordinario principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.). C’è da domandarsi perché la clemenza esercitata nei confronti di alcuni non possa tradursi in una rifusione a favore di chi non ha violato alcunché. Visto che lo strumento del credito d’imposta sta avendo un innegabile successo, vi è da domandarsi perché non si possa attribuire ai contribuenti che non si avvalgono di misure premiali un credito d’imposta corrispondente ai benefici generati dalla “tregua fiscale”. O anche solo a una parte di essi.
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