– I partiti dicono tutti di avere vinto, o di non avere perso. Conviene affidarsi ad uno specialista come Roberto D’Alimone, che sul “Sole-24 Ore” del 31 marzo ha scorporato tutti i dati elettorali regione per regione e li ha confrontati con quelli più vicini nel tempo, ossia con i risultati delle elezioni europee di un anno fa.
La sua conclusione è la seguente: la Lega, pur conquistando Piemonte e Veneto, e pur governando una moltitudine di Comuni, è andata sotto di 147 mila voti. Ciò non significa che Bossi non sia stato il vero vincitore; ma il dato è ugualmente interessante, perché nessuno lo dice. Sempre secondo i calcoli di D’Alimone, il partito del Cavaliere, il Pdl, ha perso due milioni e mezzo di voti; il Pd un milione; l’Idv 450 mila; l’Udc 360 mila. Hanno perso tutti, altro che storie, e soprattutto è andato indietro Berlusconi con il suo Pdl: due milioni e mezzo di voti in meno non sono un’inezia.
Circa il trionfo della Lega, innegabile, chi scrive è stato facile profeta. Sulla “Piazza”, alla vigilia delle elezioni, avevo infatti scritto: «Vogliamo scommettere che quel 70% di elettori che non leggono nulla, o leggono soltanto le baggianate del gossip, e si fanno guidare dal TG4 di Emilio Fede o dal TG1 di Minzolini (che Travaglio chiama Scodinzolini), alle prossime elezioni regionali piemontesi e lombarde, continueranno a votare centro-destra: per il leghista Cota, candidato governatore berlusconiano del Piemonte, e per Roberto Formigoni, il campione di Comunione e Liberazione, candidato governatore berlusconiano della Lombardia?». Così è stato, con l’aggiunta, oggi, di Mantova, perduta anch’essa dal centro-sinistra.
Ha ragione Bersani a dire che la distanza tra Pdl e Pd si è accorciata. Ma egli avrebbe fatto bene ad aggiungere che, ad onta di ciò, il Pd è uscito sconfitto. I cittadini hanno bisogno di sapere quale Italia vuole costruire il Pd, per che cosa si batte. E vogliono che i mercanti siano cacciati dal tempio, anche se i mercanti di sinistra sono assai meno numerosi dei mercanti di destra.
Conviene indagare sulle ragioni della sconfitta di misura di Bresso e Bonino. L’influenza sul voto dei parroci scatenati dall’antiabortista cardinale Bagnasco, intervenuto pesantemente alla vigilia delle elezioni, può anche essere stata? come si dice? limitata, ma si è rivelata decisiva. L’ascoltatissima Radio Maria ha esultato in questo modo: «Bonino, Bresso: il cattolico non è fesso». In Roma città, dove si concentrano le persone che leggono i giornali, la Bonino ha superato nettamente la Polverini, che è stata votata in massa nella periferia televisiva, fascista e clericale di Latina-Littoria. La timidezza laica del Pd è stata sconfitta nelle due regioni decisive, ed ora lo stesso papa invoca la disubbidienza dei cattolici in materia di aborto. E’ in atto la rivincita delle gerarchie ecclesiastiche sui risultati dei referendum del 1974 e 1981 sul divorzio e sull’ aborto (67,5 % di voti per il mantenimento della legge sull’ aborto di Stato). Il bello è che in questa loro crociata integralista le gerarchie, incuranti dell’insorgere di una pesantissima questione morale, si sono alleate con il divorziato e pluriadultero Berlusconi. La Chiesa ha fatto un altro passo indietro, rispetto al Concilio ecumenico Vaticano II. A proposito di aborto: resta confermato il divieto ecclesiastico del preservativo, strumento che costituisce invece la migliore garanzia contro l’aborto. Ed ora la Chiesa deve fare i conti con i mille e mille casi di pedofilia denunciati in tutto il mondo. Anriclericalismo? No, semplice constatazione di una pluridecennale omertà.
Ora Berlusconi lancia le “grandi riforme”, e parla di semipresidenzialismo alla francese, rifiutando il doppio turno (con il ballottaggio). Come si sa, oggi l’elettore italiano non può scegliersi i suoi deputati: è costretto a votare quelli messi in lista dai capipartito, e i parlamentari non rappresentano gli elettori, ma sono alle dipendenze delle tre o quattro persone che li hanno mandati alla Camera. I deputati di Berlusconi, è noto, sono dei maggiordomi del Cavaliere. Si vuole fare come in Francia? Si tenga conto, allora, del fatto che, quando in Francia si creò il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica di De Gaulle, l’insigne statista ebreo Michel Debré cambiò la legge elettorale, dando vita ai collegi uninominali con doppio turno, e consentendo agli elettori di scegliere dei nomi, e non una lista prefabbricata. De Gaulle era un convinto antifascista, e non voleva che il semipresidenzialismo portasse ad una nuova dittatura. Berlusconi non è un convinto antifascista come De Gaulle. Il Cavaliere pretende elezione del capo dello Stato e dei deputati in uno stesso giorno, con l’attuale legge elettorale. Vuole la dittatura, altro che il “partito dell’amore”.
di Alessandro Roveri
Libero docente
dell’Università di Roma