Legacoop Romagna: “Salario minimo sì, ma da solo non basta”.
La proposta di legge sul salario minimo – e l’ampio dibattito che si è aperto nel Paese –costituiscono una opportunità per affrontare quella urgente priorità che, apprestandosi nello scorso autunno ad aprire il suo 41° congresso, Legacoop Romagna aveva già identificato nel “problema salariale”.
Le cooperative non sono di certo contrarie all’introduzione del salario minimo. Non a caso, il progetto di legge depositato lo scorso luglio da buona parte della minoranza parlamentare riconosce proprio nel sistema cooperativo – attraverso l’applicazione della Legge sul “socio-lavoratore”, che prevede dal 2001 l’obbligo di riconoscimento di un trattamento economico non inferiore ai minimi di legge – il modello da seguire per tutte le tipologie di imprese.
E’ innegabile, d’altra parte, che la diminuzione del potere di acquisto dei lavoratori e delle famiglie e il conseguente aumento della percentuale di povertà relativa, siano fra i fenomeni che più evidentemente rappresentano un fattore di rischio per la coesione sociale e la crescita dell’economia nazionale.
Una criticità che incide negativamente anche sulla vita delle imprese, sulla qualità delle produzioni e sulla leale concorrenza, che causa difficoltà a reperire personale, limitando l’attività di ogni azienda, soprattutto nel nostro territorio.
Non avere le risorse necessarie per mantenere lo standard medio di vita corrente della società in cui si vive, è una condizione che non dovrebbe riguardare nessun individuo, men che meno se lavoratore attivo.
Una difficoltà che è sentita dai giovani che si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro dopo anni di impegno e profitto negli studi – e che per questo, spesso, decidono di lasciare l’Italia – ma anche dai lavoratori qualificati e professionalizzati.
E non è, almeno per quanto riguarda il sistema Legacoop Romagna, un problema che deriva dalla illegalità e dalla precarietà: il 67% dei 24.000 occupati dalle 400 cooperative associate a Legacoop Romagna, è assunto a tempo indeterminato, mentre il 23% è stagionale (con il sistema di tutele che ne deriva) e il restante 10% assunto a tempo determinato.
Abbiamo ben chiaro, dunque, che aver avviato un dibattito parlamentare sul salario minimo, attraverso un disegno di legge, può rappresentare il primo passo per l’individuazione di una soluzione ad una condizione di instabilità sociale ed economica, che va assolutamente risolta.
Eppure, siamo certi che gli otto, importanti, punti attraverso i quali si articola la proposta di legge, non siano sufficienti a garantire il raggiungimento del pieno risultato atteso dai lavoratori. E’ assolutamente necessario accompagnare l’iter parlamentare, politico e culturale, focalizzando l’attenzione istituzionale su altri tre obiettivi.
Il primo: un impegno per la riduzione, graduale, ma effettiva e costante, dell’indice di inflazione che, ad oggi, supera ancora il 6% (ma si conferma ancora superiore al 9% nel carrello della spesa), in un contesto economico accompagnato da scenari di forte incertezza. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, al costo dell’energia in previsione dell’autunno ma anche alle politiche europee sui tassi di interesse. E’ la riduzione dell’inflazione la prima, fondamentale soluzione strutturale al problema salariale.
Il secondo obiettivo, non meno importante, attiene al patto fra impresa e pubblica amministrazione, perché alla base di un riconoscimento salariale che non sia solo minimo, ma adeguato alla professionalità prestata, ci deve essere la giusta remunerazione di quel lavoro da parte della stazione appaltante, in particolare se pubblica, nella accezione più ampia del termine: enti locali ma anche aziende partecipate e amministrazione centrali. Non sempre questo accade: non è stato così nel caso del riconoscimento degli aumenti contrattuali e nemmeno dell’aumento delle materie prime e dei costi dovuti Covid, soprattutto per il grande settore dei servizi.
Non rassicura pienamente, d’altra parte, la previsione dell’art.7 del disegno di legge, che riporta la necessità di un beneficio inserito nella Legge di bilancio 2024come adeguamento alle imprese, fino al riconoscimento ai lavoratori dei 9 euro previsti: l’impegno che il Governo deve assumersi in questa direzione deve essere cogente ed avere carattere di obbligo e continuità.
Attenzione, infine, al procrastinarsi del problema del dumping salariale, attraverso l’applicazione di CCNL di settore (come sappiamo al CNEL ne sono depositati oltre 1.000) che potrebbero garantire il trattamento economico minimo indicato, ma riducendo le garanzie e i diritti del trattamento complessivo: scelte sbagliate che vanno scongiurate all’origine.
Sì, dunque, al salario minimo, anche da subito. Ma attenzione a non farne una battaglia solo ideologica, fine a se stessa, non accompagnata da politiche economiche e riforme strutturali indispensabili.