Tratto da lavoce.info
DI MARIO DEL PERO, professore di Storia Internazionale a SciencesPo, Parigi
Se a novembre Donald Trump sarà rieletto alla presidenza degli Stati Uniti, costruirà una amministrazione più coesa e “fedele”. La politica estera assumerà toni più aggressivi, ma sui dossier più scottanti non dovrebbero esserci cambiamenti eclatanti.
Il potere del presidente in politica estera
A meno di svolte che per il momento non appaiono all’orizzonte, tutto lascia presagire che Donald Trump sarà il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti e in novembre assisteremo alla replica della sfida del 2020 con Joe Biden.
Che impatto ha tutto ciò sull’azione internazionale degli Stati Uniti e che tipo di politica estera è possibile immaginare nel caso dovesse insediarsi una seconda amministrazione Trump, dopo quella del 2017-2021? Si può provare a rispondere individuando schematicamente alcuni punti su cui soffermarsi.
Il primo punto è che la politica estera e di sicurezza pone a chi guida gli Stati Uniti più vincoli e costrizioni di quella interna. Mille caveat sarebbero qui necessari: da un lato, le dinamiche interne e quelle internazionali sono strettamente interdipendenti e dall’altro si deve evitare di credere all’idea, storicamente infondata ma ancora popolare, secondo la quale negli Usa la politica estera verrebbe condotta sulla base di un solido consenso bipartisan e di una definizione condivisa dell’interesse nazionale.
Detto ciò, è chiaro che vincoli sistemici e sfide inattese e imprevedibili circoscrivono la libertà d’azione e limitano la stessa sovranità anche della potenza superiore dell’ordine globale, quale gli Usa continuano a essere. In una certa misura lo abbiamo già sperimentato con la prima presidenza Trump, durante la quale lo scarto tra retorica e politiche non fu determinato solo dall’incompetenza e dallo scarso interesse del presidente verso l’arte e la fatica del governo (che pure pesarono), ma anche dalla oggettiva impossibilità di promuovere svolte radicali: di sostanziare coerentemente quella promessa di totale discontinuità su cui si era basata l’ascesa politica del tycoon newyorchese.
Anche perché – ed è il secondo punto – benché a volte lo dimentichiamo, la politica estera degli Usa continua a essere il prodotto di un processo pluralistico, e non di rado conflittuale, a cui partecipano una molteplicità di soggetti, come in fondo abbiamo visto in questi ultimi mesi. Quando il Senato ha ad esempio approvato una misura che rende molto difficile, se non impossibile, uscire dalla Nato (la decisione dovrebbe essere ratificata, come da costituzione per i trattati, da una maggioranza qualificata dei due terzi dei senatori). Oppure quando numerosi gruppi imprenditoriali statunitensi hanno preso posizione contro il disegno di Biden di ridurre la presenza cinese in catene di valore nelle quali invece la Cina continua a essere indispensabile.
Gli effetti del ritorno di Trump sulla scena
Fatte queste banali premesse metodologiche, è bene soffermarsi sull’impatto che la semplice ricandidatura di Trump – e quindi il suo controllo sulla maggioranza dell’elettorato repubblicano – ha già avuto (e continua ad avere). La vediamo su due ambiti principali, non casualmente accorpati nella prostrante discussione in corso da mesi alla Camera dei rappresentanti: l’Ucraina e la questione dell’immigrazione al confine meridionale con il Messico.
Sulla decrescente disponibilità a continuare a finanziare la difesa dell’Ucraina pesano una pluralità di fattori, dal (fisiologico) calo dell’entusiasmo iniziale alla disillusione sia rispetto alla controffensiva di Kiev, sia all’impatto di sanzioni economiche che, negli auspici, avrebbero dovuto portare al collasso del regime putiniano. Ma pesa, e pesa tantissimo, la rinnovata ipoteca di Trump sul partito repubblicano. Sappiamo quanto critico sia l’ex presidente nei confronti delle politiche adottate verso la Russia e la sua poca simpatia verso Zelens’kyj e l’Ucraina. Se vogliamo vedervi una qualche dignità strategica, la posizione di Trump riflette un più generale anti-interventismo e, assieme a questo, l’ostilità ad azioni multilaterali e atlantiche quali quelle attivate dagli Usa in risposta all’aggressione russa dell’Ucraina. La fatica nell’approvare nuove linee di aiuti a Kiev è quindi conseguenza anche del ritorno di Trump. Così come lo sono le azioni di sindaci e governatori democratici in patente difficoltà rispetto a un tema – la crescita dei flussi d’immigrati messicani e centro-americani – che pare essere andato fuori controllo e rischia di avere un forte impatto elettorale in novembre. Una emergenza (o presunta tale), che rende sempre più complicato ed elusivo il compromesso che Biden (e prima ancora Barack Obama) hanno invano cercato tra un rafforzamento dei controlli al confine meridionale, l’intensificazione e accelerazione delle espulsioni e una qualche forma di sanatoria per gli 11-12 milioni d’immigrati “illegali” che risiedono nel paese, a partire da quelli entrati negli Usa quando erano ancora minori.
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Trump II con una amministrazione più coesa
Per quanto riguarda un ipotetico Trump II, un aspetto da sottolineare è che difficilmente assisteremo ai compromessi e agli equilibri politici che contraddistinsero la sua prima amministrazione. Non avremmo insomma conservatori internazionalisti classici come il segretario di stato Rex Tillerson o il consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster. E men che meno aggressivi neocon come John Bolton (che nel 2018 sostituì McMaster). Il progetto trumpiano (e della Heritage Foundation) di procedere a un radicale ripulisti della burocrazia federale si estende peraltro anche al Dipartimento di Stato, dove già nella prima esperienza di Trump si assistette a numerose dimissioni. È lecito prevedere un’amministrazione più coesa, composta da lealisti trumpiani accuratamente selezionati.
Se Trump sarà eletto, la sua amministrazione sarà dunque più coerente, radicale e, si presume, incisiva di quanto non fu la prima. Per fare cosa? Al servizio di quale disegno strategico? Su quali dossier? E con quale lessico? Su questo possono probabilmente servire da bussola i principali documenti strategici del 2017-2021, a partire dalla National Security Strategy (Nss) del dicembre 2017 (l’unica strategia prodotta nel quadriennio).
La retorica sarà quella di un aspro realismo, fondato sull’asserita necessità di recuperare la sovranità perduta (“difendere senza scuse la sovranità dell’America”, asseriva la Nss), di difendere l’interesse nazionale e di considerare le alleanze – anche quelle con i più importanti partner europei e asiatici – funzionali, contingenti e in ultimo transactional. Varie politiche saranno adottate per raggiungere questi obiettivi. Innanzitutto, il sostegno all’industria estrattiva, giustificato dalla necessità di raggiungere una piena autosufficienza (e quindi sovranità) energetica e fondato sulla negazione del cambiamento climatico. Il corollario, qui, sarà ovviamente l’abbandono della Cop28 e degli accordi multilaterali sul clima (come Trump fece già nel 2017). In secondo luogo, la politica di sostegno al manifatturiero sarà quasi certamente perseguita per il tramite di nuove guerre commerciali nelle quali non si discriminerà tra alleati e avversari e che prenderanno quindi di mira anche i partner europei, Germania su tutti. Infine, si adotteranno politiche draconiane rispetto al controllo del confine meridionale e all’espulsione degli immigrati illegali.
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Rimangono due dossier critici – Cina e Medio Oriente – sui quali forse le discontinuità saranno meno marcate (anche se tutto, come sempre, dipenderà da dinamiche e attori che gli Usa possono solo in parte controllare e determinare).
L’idea che la Cina sia ormai un competitore degli Usa, e che sia fondamentale giungere a un qualche disaccoppiamento delle due economie e a una riduzione del potere di condizionalità di Pechino sulle catene transnazionali di valore, costituisce uno dei pochi terreni di convergenza bipartisan che sono rimasti. Con Trump si alzerà quasi sicuramente l’asticella dell’aggressività retorica nei confronti di Pechino, ma è difficile immaginare svolte radicali. Così come è difficile immaginarle rispetto al Medio Oriente e al conflitto israelo-palestinese, su cui un’amministrazione repubblicana sarebbe oggi ancor più schierata a fianco di Benjamin Netanyahu e della destra israeliana.
Lo scarto tra retorica e politiche sarà presumibilmente marcato. Così come lo sarà la coerenza di un’azione internazionale esposta anch’essa alle intemperanze e ai capricci di un presidente noto per la poca pazienza e il sostanziale disinteresse verso le minuzie e la complessità dell’azione di governo, oltre che incline a repentini mutamenti di umore e di linea (si pensi solo all’atteggiamento nei confronti della Corea del Nord durante il suo primo mandato).
È presumibile che soprattutto in una prima fase, Trump adotterà provvedimenti dall’alta valenza simbolica, atti a soddisfare il suo elettorato più militante, simili al suo primo Travel Ban, dall’evidente contenuto islamofobo, del gennaio 2017, che le corti poi bloccarono.
Da più parti si sottolinea come l’impatto più marcato di un Trump 2 lo si avrebbe sul piano interno e su una democrazia oggi in sofferenza, che rischierebbe di essere resa ancora più fragile. È però chiaro che anche su questo i riverberi sarebbero ben più ampi: una crisi, e una eventuale implosione, della democrazia statunitense – ipotesi tutt’altro che irrealistica alla luce di quanto abbiamo visto negli ultimi anni – sarebbe destinata ad avere un impatto che va ben al di là dei confini statunitensi. Se anche non dovesse realizzarsi una deriva autoritaria, a essere messa a dura prova sarà la tenuta di un “elastico” federale già teso oltre il limite di guardia, a causa di divergenze estreme di politiche pubbliche che riflettono la radicale polarizzazione in atto; ma anche come conseguenza di azioni di politica estera – si pensi appunto ad ambiente e immigrazione – che portano stati e municipalità a rispondere con contro-politiche, alimentando una dialettica tra poteri fattasi a sua volta sempre più tesa e conflittuale.
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