Unità d’Italia, la prima dimostrazione popolare viene fatta per Rimini
Il 23 settembre 1845, un gruppo di patrioti riminesi, sotto la guida di Pietro Renzi, caccia le autorità papaline
L’INCHIESTA
Non si trattava di un documento rivoluzionario, come sarebbe piaciuto a Mazzini. In esso si chiedeva soltanto al papa, al cospetto dell’Europa, di attuare alcune riforme che risollevassero lo Stato pontificio dalla nomea di Stato italiano peggio governato dell’epoca
Si chiedeva: che l’istruzione pubblica fosse sottratta alla soggezione dei vescovi e del clero; che gli impieghi civili e militari fossero riservati ai laici; che venisse concessa un‘amnistia ai condannati politici (molti nel tetro carcere di San Leo); che i consigli comunali fossero eletti dai cittadini; che i processi politici fossero affidati ai tribunali ordinari; che il tribunale del Santo Ufficio non avesse giurisdizione sui laici; che venissero varati un codice civile e un codice penale
– Pochi sanno che riguardava i Riminesi «la prima dimostrazione popolare del Risorgimento italiano», svoltasi a Pisa nel 1846. Ne ha parlato Nunzio Vaccalluzzo, il maggiore biografo di Massimo d’Azeglio. Quella dimostrazione popolare fu organizzata in segno di solidarietà coll’Azeglio, che nel marzo 1846 aveva stampato a Firenze l’opuscolo Degli ultimi casi di Romagna (ovvero il moto di Rimini del settembre 1845): un’opera che infiammò l’animo di tutta la penisola, ma costò al suo autore l’ira del Nunzio pontificio a Firenze: sequestro dell’opuscolo, ed espulsione di Massimo d’Azeglio decretata dal granduca.
I motivi
Di qui, quindi, dalla Rimini del settembre 1845, occorre partire, per ricordare come la città romagnola sia stata la protagonista della prima pagina dell’ormai vicino Risorgimento italiano. Il 23 settembre 1845, infatti, un gruppo di patrioti riminesi, sotto la guida di Pietro Renzi, aveva cacciato le autorità papaline, si era impadronita di Rimini e aveva diffuso un Manifesto delle popolazioni dello Stato romano ai Principi ed ai Popoli d’Europa (si noti la dimensione europea data a quel manifesto). Non si trattava di un documento rivoluzionario, come sarebbe piaciuto a Giuseppe Mazzini. In esso si chiedeva soltanto al papa, al cospetto dell’Europa, di attuare alcune riforme che risollevassero lo Stato pontificio dalla nomea di Stato italiano peggio governato dell’epoca.
Le richieste
Vi si proponeva che l’istruzione pubblica fosse sottratta alla soggezione dei vescovi e del clero; che gli impieghi civili e militari fossero riservati ai laici; che venisse concessa un’amnistia ai condannati politici, molti dei quali erano rinchiusi nel vicino, tetro carcere di San Leo; che i consigli comunali fossero eletti dai cittadini; che i processi politici fossero affidati ai tribunali ordinari; che il tribunale del Santo Ufficio non avesse giurisdizione sui laici; che venissero varati un codice civile e un codice penale.
Tutto inutile: le forze pontificie, ricevuti i rinforzi, rioccuparono Rimini quattro giorni dopo i festeggiamenti del 23 settembre, e Renzi si salvò fuggendo a San Marino. In quel momento Massimo d’Azeglio era appena partito da Rimini, dove si era recato su invito del patriota cesenate Filippo Amadori, da lui conosciuto e frequentato a Roma.
D’Azeglio e l’opuscolo
L’opuscolo dell’Azeglio sugli ultimi casi di Romagna ebbe un enorme successo in tutta Italia. In esso il moto riminese era criticato per la sua intempestività e il suo carattere locale; ma si capiva che il vero bersaglio del liberale moderato Azeglio, favorevole a riforme «al chiaro giorno» e contrario alle insurrezioni, era il Vicario di Dio, il papa, che avrebbe dovuto trovare nel Vangelo la legge universale della giustizia, e sotto accusa erano i rappresentanti del papa. D’Azeglio rivolse loro parole terribili: «Dei moti di Romagna, delle uccisioni, degli esilii, delle lacrime di tanti infelici, n’avete a render conto a Dio, voi governo, e non i vostri calpestati sudditi. Il loro sangue vi ripiomberà sul capo».
Uccisioni? Sì, probabilmente Azeglio si riferiva ai venti condannati a morte dai tribunali di papa Gregorio XVI in seguito al fallito moto romagnolo-bolognese del 1843, se non anche al riminese Giovanni Verenucci fucilato il 15 luglio 1844 insieme ai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera.
Tre anni dopo il moto riminese i liberali moderati del regno di Sardegna davano vita alla prima guerra dell’Indipendenza italiana, ossia a un processo che avrebbe portato nel 1861, per merito di Cavour e della concomitante spedizione dei Mille di Garibaldi, alla nascita del regno d’Italia e alla fine dello Stato pontificio. Ma soltanto nel 1870, grazie alla breccia di Porta Pia, Roma, sottratta al papa, divenne la capitale del regno d’Italia. Tre anni prima, nel 1867, numerosi erano stati i volontari riminesi che avevano partecipato a Mentana al tentativo garibaldino di conquistare Roma. Davanti alla breccia di Porta Pia passo spesso riverente, e posso precisare che la breccia fu creata non proprio sulla vecchia e robustissima porta, ma sulle meno resistenti mura aureliane, cinquanta metri più a nord.
1861-2011: questi i 150 anni che l’Italia si accinge a celebrare, nello spirito che il presidente della Repubblica Napolitano vorrebbe condiviso il più possibile. Ma non facciamoci illusioni. Il presidente del Consiglio ha già spiegato ai giovani del cosiddetto Partito della libertà, riuniti a convegno, qual è la sua opinione al riguardo: «In preparazione per l’anno 2011 del centocinquantenario della storia d’Italia? disse? consiglio a tutti di andare a rivedere la nostra storia degli ultimi 150 anni, che è stata raccontata in modo diverso dalla realtà: quindi credo che per una esigenza di verità sia bene per tutti andarsi a rinfrescare la memoria o a correggere ciò che è stato scritto erroneamente».
di Alessandro Roveri
Libero docente
dell’Università di Roma
IL FATTO
I moti di Rimini. Agli insorti governo di tre giorni
– L’insurrezione doveva scoppiare simultaneamente in diversi punti dello Stato Pontificio, per l’insufficiente organizzazione scoppiò soltanto a Rimini, dove Pietro Renzi, alla testa di un centinaio di fuorusciti, il 23 settembre del 1845, sollevata la popolazione, colse di sorpresa la guarnigione pontificia, composta da due compagnie di fanteria, quattordici dragoni e quaranta carabinieri, e la costrinse ad arrendersi.
Impadronitosi della città, il Renzi istituì un governo provvisorio, che egli stesso presiedette; ma questo governo non durò che tre giorni. All’annuncio che da Forlì era partito un battaglione pontificio, il Renzi – sul cui conto poi corsero gravi accuse – sciolse il suo gruppo di insorti. Abbandonata Rimini, parte si rifugiarono a San Marino e parte per la Toscana.
Quei garibaldini salucedesi
Legati probabilmente alla famiglia Albini, una delle più importanti della provincia
LA STORIA
Raccontati nel libro “Gli Albini di Saludecio” di Guglielmo Albini, classe 1844. Si arruolò per la Terza guerra di indipendenza nel 1866. Con lui: Alessandro Chelotti, il dottor Fausto Alba e il dottor Antonio Fronzoni. Protagonista anche un marignanese, Respicio Olmeda,
– Garibaldini saludecesi, qualche nome che riemerge dalla memoria di un uomo che nel 1934 raccontava la storia allora recente della sua famiglia nel libro “Gli Albini di Saludecio”. Guglielmo Albini, classe 1844, scrisse delle vicende sue e dei suoi parenti, attraverso i ricordi, la testimonianza del padre, del nonno e dei famigliari e i documenti storici. Non emerge nessun nome da ricondurre alla spedizione dei mille, ma nella trama di quello che sembra un romanzo, le vicende spicciole della collina e della provincia si intrecciano con i grandi eventi che hanno fatto la storia del paese.
Dal fratello Achille che nemmeno diciannovenne partecipò alla battaglia di Cornuda, nel 1848, la prima battaglia sulla strada che avrebbe portato all’indipendenza italiana, al compaesano Angelo Fraternali. Questi era a Roma nel 1849, durante la parentesi repubblicana durata appena nove mesi. Vi stette fino al 2 luglio, combattendo come volontario contro i papalini, quando Garibaldi decise di lasciare via libera ai Francesi e al ritorno del pontefice, per continuare la guerra da altrove contro “lo straniero”.
E poi lui, Guglielmo, che nel 1860 aveva appena 16 anni, troppo giovane per partire da Quarto alla volta di Marsala, si arruolò volontariamente assieme ad altri compatrioti saludecesi appena ne ebbe l’occasione e l’età. Nonostante si fosse appena sposato e aspettasse un bimbo partì per Bari e si aggregò nel corpo dei Volontari di Garibaldi in partenza per il nord. Tra i garibaldini erano già arruolati Romolo Morosi, Stanislao e Guido Guglielmi, Ferdinando Romagnoli e Vincenzo Pedriali suoi compaesani. Assieme a lui, nel giugno del 1866 partirono anche Alessandro Chelotti, il dottor Fausto Alba e il dottor Antonio Fronzoni. Era la terza guerra d’Indipendenza, sul fronte trentino, terra ancora non redenta. Quella spedizione vide anche protagonista un altro illustre abitante della Valconca, Respicio Olmeda, il marignanese telegrafista che tradusse in punti e linee il famoso “Obbedisco” di Garibaldi dopo l’alt ordinato da re Vittorio Emanuele.