Un buon risultato per il PD e la sinistra anche alle nostre latitudini. Buono pure per Meloni, insomma un esito complessivamente in linea con l’andamento nazionale.
Vale la pena, tuttavia, di scavare un po’ nei dati per capire se c’è qualche messaggio dell’elettorato che non si coglie immediatamente in superficie o che non è stato sottolineato a sufficienza nei commenti, Rimini spesso anticipa percorsi nazionali e perciò ne vale la pena.
Pongo al centro dell’analisi il dato più preoccupante, quello dell’affluenza alle urne. È preoccupante perché segna un punto di frattura sempre più profondo tra cittadini ed istituzioni democratiche ed indebolisce il presidio popolare della democrazia italiana, che, al pari di quella di altri paesi europei, è sottoposta a molteplici attacchi.
La media regionale è stata del 59,02, quella nella provincia del 52,97. Sono dati entrambi molto bassi. Quello della nostra provincia è tradizionalmente il più basso della regione, ma, anche in questa occasione, la distanza dalla media regionale continua a crescere, anche se di una entità ridotta.
Per la verità rispetto alle politiche del ’22 la media regionale registra un -12,95, mentre quella provinciale – 16,10. Pur in un quadro complessivamente agghiacciante, tre punti abbondanti di differenza negativa non sono cosa da poco. C’erano anche elezioni amministrative, perciò quei tre punti possono trovare una parziale spiegazione nel coinvolgimento, a differenza di Rimini, di diversi comuni più popolosi della regione in quel turno. Tuttavia, anche se il raffronto viene fatto con le Europee ’19, che si svolsero, dal punto di vista del condizionamento delle amministrative, in una situazione praticamente identica, la partecipazione nella nostra provincia scende maggiormente che in regione, -8,70 contro il -8,28. Insomma, il nostro primato di provincia più assenteista si conferma e si rafforza, con quel 52,97 distanziamo Piacenza e Parma di più di due punti. Non è un record di cui andare fieri e dovrebbe porci qualche interrogativo.
Scendendo di scala è difficile fare raffronti tra i diversi comuni della provincia perché alcuni sono stati coinvolti dal voto amministrativo ed altri no.
Guardando a quelli di maggiore dimensione, i dati dei comuni nei quali si è votato solo per le europee sono davvero allarmanti. Riccione (-20,45 sulle politiche, -9,84 sulle europee). Cattolica, arrivando al 47,75 registra il dato più basso dei comuni più popolosi (-19,62 politiche, -9,38 europee). Rimini (-19,27 politiche, -8,79 europee).
Se si confrontano invece i tre comuni più grandi nei quali si è votato anche per le amministrative emerge un dato abbastanza particolare ed in controtendenza rispetto alla narrazione che la sinistra ha sempre coltivato circa la partecipazione al voto e il maggiore senso civico destinati a premiare la propria parte politica.
Bellaria, che nei decenni precedenti registrava un’affluenza più bassa degli altri comuni, con il suo 64,43 odierno batte sia Santarcangelo (64,14) che Misano (61,71). Da notare che, alle precedenti consultazioni, invece i due comuni di sinistra avevano un’affluenza alle urne maggiore di Bellaria. Bellaria (-3,34 politiche, -5,10 europee), Santarcangelo (-7,95 politiche, -7,81 europee), Misano (-6,33 politiche, -8,88 europee).
Forse è un test troppo ristretto per trarre una valutazione solida, però possiamo cercare un altro indizio confrontando le affluenze di Forlì e Cesena, comuni nei quali si è votato per il rinnovo delle amministrazioni che avevano due diversi orientamenti politici.
Cesena di sinistra mantiene un’affluenza maggiore rispetto a Forlì governata dalla destra (63,42 contro 62,75), ma la diminuzione dell’affluenza è maggiore di più di due punti (parecchi!) a Cesena (-10,58 politiche, -8,42 europee) rispetto a Forlì (-8,49 politiche, -6,86 europee).
Le ragioni di questo andamento che potrebbe (uso volutamente il condizionale a causa di un campione molto ristretto) descrivere una maggiore vicinanza dei cittadini alla politica nelle realtà nelle quali c’è una destra di governo, rispetto a quelle che premiano la sinistra, è di difficile interpretazione. Potrebbe però contenere un segnale da non ignorare. Le letture della sinistra ed anche dei commentatori mainstream, infatti, hanno sempre detto esattamente il contrario. I dati, d’altra parte, negli anni passati lo confermavano. Nelle regioni “rosse” il maggiore successo delle sinistre alle elezioni amministrative rispetto alle politiche faceva parte di questo fenomeno.
L’interpretazione più semplice, ma comunque non banale, è che la luna di miele per Meloni non sia ancora finita, anzi in alcuni casi si stia estendendo. È il profilo di governo che paga e che si consolida, perché si rispecchia e si rafforza grazie alla matrice di governo locale.
C’è un elettorato di destra più motivato, più “militante”, più “tifoso”, ma temo anche più capace di attrarre e di tenere incollati al progetto Meloni elettori tradizionalmente indecisi e meno propensi al voto. Insomma, dove la destra ha in mano il governo locale e dà prova di capacità amministrative, la curva dei militanti contagia lo stadio di casa, con l’esito di un senso di responsabilità civica inatteso, che si declina a destra.
Si potrebbero leggere però questi dati anche al contrario, come un arretramento, invece, del senso di responsabilità civica a sinistra, motivato da un’offerta politica nazionale insoddisfacente che finisce per deprimere una parte dell’elettorato progressista anche in presenza di una competizione in cui è in gioco il governo locale. Alle Europee, a guardar bene, l’offerta politica che sembrava molto ampia era in realtà composta da due sole opzioni programmatiche, una delle quali, quella liberal democratica, tragicamente incapace, per ragioni di risibile personalismo, di presentarsi in una veste credibile. L’altra, sostanzialmente ancorata ai valori più tradizionali della socialdemocrazia (non è un paradosso dirlo anche per il M5S conio Conte), con una sovrapposizione programmatica delle tre forze politiche che la rappresentavano. Un orizzonte che non forniva motivazioni forti e mobilitanti a quella parte dell’elettorato di ispirazione potenzialmente progressista che è, per molteplici ragioni, sempre più sfiduciato della politica.
Lo considero, in entrambe le interpretazioni, un segnale di allarme per il centro sinistra, in vista di possibili referendum in materia istituzionale e costituzionale. Mi preoccupa particolarmente un sentire che appare diffuso anche negli strati di popolazione più lontani dalla politica e che più facilmente, perciò, sono portati a disertare le urne. Anche i meno esigenti, i più avvezzi alle semplificazioni, anche quelli che si informano di meno, non sempre si accontentano di una descrizione del mondo in bianco e nero. Se c’è un’immagine deteriorata in quello che un tempo veniva chiamato il “teatrino della politica”, quello che allontana gli elettori dalla partecipazione, oggi, piuttosto che l’ombra permanente dell’“inciucio”, come era in passato, è la rissosità incessante, la contrapposizione immancabile e scontata, la ricerca costante di tratti mostruosi con i quali descrivere l’avversario. Si viene chiamati principalmente per votare contro. E’ un format sempre più logoro, che anche nell’intrattenimento televisivo alla fine stanca. Ho l’impressione che il NO basti sempre meno per portare gli elettori ai seggi.
Un altro segnale sorprendente, piccolo, ma, in questa chiave, non del tutto insignificante, è quello dei voti non validi. Nonostante la diminuzione del numero dei votanti, sia in regione che in provincia, il numero delle schede bianche e delle schede nulle aumenta. Tra le due europee sono circa 19.000 in più in Regione e circa 1500 in Provincia. Questi elettori hanno fatto la fatica di andare ai seggi, dimostrando un attaccamento al sistema democratico, ma nel segreto dell’urna hanno scelto di esprimere un voto per chiedere qualcosa che l’offerta politica esistente non presenta. Non è exit è voice. Forse sperano di essere ascoltati, è un segnale molto piccolo, ripeto, ma decisamente imprevedibile per le sue dimensioni e testimonia di una forte domanda di cambiare.
Può essere utile raffrontare l’andamento dei due blocchi elettorali che si sono contrapposti. Quello di destra è già costituito, mentre per calcolare quello di sinistra ho sommato anche il centro che comunque, in diverso modo, aveva contribuito ai risultati delle politiche o delle precedenti europee. Ho escluso invece le sinistre più estreme. Al di là di eventi sporadici e di sfumature certamente non secondarie, ci sono molti elementi che ne fanno un campo elettorale se non unico, comunque costituito da importanti adiacenze. Cito, ad esempio, l’ancoraggio europeista comune, che è piuttosto solido, come quello repubblicano antifascista.
I campi elettorali così definiti, d’altra parte, trovano un qualche sostegno nella lettura dei flussi alle recenti europee. Come è noto, i flussi di voti tra sinistra e destra sono stati molto contenuti a differenza di quelli che sono avvenuti tra le forze politiche insediate in ciascuno dei due campi. Quelle migrazioni di consensi, all’interno di uno stesso campo, sono state particolarmente rilevanti nel confronto tra le due elezioni europee, ma i flussi più consistenti, per tutte le forze, sono quelli in entrata e soprattutto in uscita, verso l’astensione dal voto.
Il confronto del voto tra elezioni europee ’19 e ‘24 in Regione vede aumentare i consensi del campo di centro sinistra del +3,46% anche se i voti diminuiscono di circa 70.000 elettori. In Provincia, in percentuale l’aumento è più basso, arriva solo al +1,61% ed anche la perdita di voti più importante (-7.500) rispetto al monte votanti del centro sinistra. Per la destra la perdita in Regione è del -3,62%, ma di voti ne spariscono un’enormità, circa 190.000 voti. In Provincia, è meno consistente (-2,18%) e anche la perdita di voti è proporzionalmente inferiore, circa 13.000.
Insomma, se prendiamo a riferimento il tasso di diserzione delle urne, nella Provincia di Rimini, dove l’astensione è più alta rispetto alla media regionale e dove questa è anche cresciuta di più, per il centro sinistra le cose vanno un po’ meno bene, mentre la destra, pur diminuendo molto, anche percentualmente, i propri consensi, contiene meglio l’emorragia di voti rispetto alla media regionale.
In ogni caso per entrambi i campi elettorali i risultati positivi e negativi sono comunque determinati, non da nuovi consensi, ma dall’enorme peso che ha l’abbandono di una parte dell’elettorato, quello che si rifugia nell’area del non voto.
Mi pare evidente che il futuro dei successi o degli insuccessi elettorali, si giocherà sempre di più sulla capacità che avranno i diversi schieramenti politici di convincere, di dare una ragione per recarsi alle urne al più grande partito italiano che è quello dell’astensione. Campagne elettorali basate esclusivamente sulla sollecitazione identitaria della propria tifoseria sono destinate al fallimento.
Questi dati regionali e locali ci confermano, nello stesso tempo, che chi è stato maggiormente penalizzato dall’aumento dell’astensionismo, è senza dubbio il campo della destra.
Il dato locale riminese sembra aggiungere un’ulteriore evidenza: se l’astensione cresce troppo i benefici per il centro sinistra si riducono ed anche la penalizzazione della destra diventa meno pesante. Si tratta di un equilibrio sottilissimo che si gioca sulla credibilità complessiva del sistema di rappresentanza politica, piuttosto che sull’appeal di ciascuna forza che lo compone.
Infine, c’è un’eccezione in questa complessiva tendenza, essa è costituita dai risultati elettorali dei comuni nei quali si votava per le amministrative: là dove la destra era in posizione di maggioranza al governo locale, l’astensione risulta minore e i risultati la favoriscono.
Più complicato, per leggere un’eventuale connessione tra risultati elettorali dei due blocchi e diserzione delle urne, è il raffronto con le politiche del’22, che registrano un’affluenza al voto molto più alta rispetto alle europee ed una presenza di liste maggiore, che ha l’effetto di disperdere in diversi rivoli una quota di consensi.
In Regione per il Centro sinistra, nonostante il 55,95% dei consensi (+6,56%), mancano all’appello circa 145.000 voti rispetto alle politiche. Anche la destra aumenta raggiungendo il 40,74% (+1,80%), ma e il salasso in proporzione non è certo da meno: 90.000 voti.
In Provincia l’andamento è invece opposto, il Centro sinistra aumenta molto meno +0,74% di quanto non avvenga in Regione, mentre la Destra aumenta molto di più +3,34%. Entrambi i campi perdono votanti, il Centro sinistra ben 14.000, la Destra solo 8000. Mi verrebbe da dire che nel ’22 tra i candidati c’era Andrea Gnassi, il quale, senza dubbio, ha attivato e spostato su di sé una parte di votanti, poi tornati alle europee del’24 a dormire nell’area del non voto.
Se mettiamo in relazione questi dati con il tasso di astensione si conferma quanto registrato già nel raffronto tra le due europee. L’allontanamento dalle urne in questo caso non penalizza nessuno, né in Regione, né in Provincia; entrambi i campi hanno, infatti, una riserva di voti ai quali attingere da liste minori non presenti alle europee. Tuttavia, quando l’astensione diventa troppo alta, come accade nella nostra provincia, chi ne beneficia di più è la Destra.
È interessante anche confrontare gli esiti elettorali tra i voti delle europee e quelli delle comunali, nei comuni dove si votava per entrambe le competizioni. Purtroppo, la presenza di candidati e di liste civiche rende molto difficile una lettura di questi dati.
Prendendo a riferimento i tre comuni maggiori che erano interessati da entrambi i voti si registrano comportamenti diversi.
A Bellaria il campo di Destra risulta molto compatto e ai suoi 5057 consensi delle comunali si aggiungono soltanto una novantina di voti che provengono con ogni probabilità dalla lista civica che riversa invece gran parte dei propri consensi alle europee nel campo del Centro sinistra. Circa 1200 voti vanno a finire lì, altri 286 alle diverse liste minori delle europee, ma ci sono ben 354 elettori che decidono di votare correttamente solo per le amministrative. Non prendono la scheda o l’annullano con un gesto consapevole e certamente non qualunquista di giudizio negativo sull’offerta politica presente alle elezioni europee.
A Santarcangelo il percorso è opposto. Il Centro sinistra ottiene più voti alle amministrative (circa 500), raccogliendo evidentemente i consensi che alle europee sono andati alle liste minori. La Destra alle amministrative si presenta divisa, tra la candidatura ufficiale ed una civica che attinge allo stesso bacino. Il risultato delle Europee non mente e ricompatta quelle appartenenze. Praticamente è la somma esatta dei voti ottenuti dalle due liste di destra alle comunali (4668 europee, 4655 comunali la somma delle due liste). Anche a Santarcangelo c’è una pattuglia di elettori, seppur più piccola (138) che arriva al seggio, ma rifiuta il voto per le europee.
Anche a Misano il Sindaco di Centro sinistra ottiene più consensi dei voti raccolti dal suo campo alle europee (4009), in questo caso molti di più (oltre 800). Con ogni evidenza c’è una parte di elettorato che alle europee ha scelto la Destra che invece alle comunali converge sul candidato sindaco del Centro sinistra. Anche qui c’è una civica che teoricamente, vista la storia amministrativa del candidato sindaco, dovrebbe avere un sapore di centro sinistra, ma in realtà calamita solo i consensi della Destra, nella speranza di competere meglio. Complessivamente le due liste, quella ufficiale della destra e quella civica ottengono 2914 voti, ma alle europee si aggiungono 318 consensi che portano i voti della Destra (3232) a superare quelli del Centro sinistra (3194).
La campagna elettorale è stata segnata da forti motivi di polemica locale e di divisioni nei gruppi dirigenti del Centro sinistra, ciò però si è rivelato un boomerang per chi pensava ad una alternativa, il sindaco del Centro sinistra ottiene infatti un suffragio particolarmente convincente.
Misano in questo quadro, segnato da un complicato assortimento di liste alle comunali non si sottrae però al piccolo fenomeno che abbiamo visto negli altri comuni, gli elettori che non considerano meritevole della loro attenzione il voto delle europee, nonostante siano arrivati al seggio, sono parecchi, 291.
Complessivamente nei tre comuni della nostra provincia, l’elettorato si è dimostrato meno “liquido” che in passato relativamente alla differenza di voto tra le due competizioni. Ha seguito logiche tutto sommato coerenti ad una appartenenza politica consolidata negli anni più recenti. A Forlì e a Cesena, invece la differenza tra i due voti è stata molto sensibile. A Forlì ci sono 5000 voti che passano dalle europee alle amministrative dal Centro sinistra alla Destra, consentendo la vittoria al sindaco di quello schieramento. A Cesena la “liquidità” non è da meno, rafforza di 3000 voti il Centro sinistra alle comunali e penalizza la Destra di 5000.
Insomma, nel forlivese sono le elezioni locali che muovono in modo molto consistente le preferenze dell’elettorato. Nel riminese il voto tra le due competizioni invece è meno mobile, potrebbe forse discendere da un minore assenteismo rispetto alle politiche del ’22.
Una annotazione finale per evidenziare quel piccolo fenomeno della differenza di voti espressi tra le comunali e le europee. Intanto possiamo riscontrarlo anche nei due comuni di Forlì e Cesena. A Forlì i disertori dell’urna europea sono stati 661, a Cesena, che ha un numero minore di elettori, addirittura 695. C’è una cosa, tuttavia, che accomuna le due grandi città della provincia limitrofa con i tre comuni riminesi che abbiamo analizzato: nel 2019 quella diserzione del voto delle europee era un fenomeno assolutamente irrilevante. Insomma, si tratta di un ulteriore indizio, per quanto piccolo, che evidenzia la crescita della sfiducia nei confronti della politica presente. Una sfiducia ragionata e perciò più preoccupante.
Se è possibile trarre una riflessione conclusiva da questo panorama, che manifesta anche molti dati contradittori, è che forse siamo entrati in una nuova fase, il cui tratto distintivo è una pesante diminuzione dell’affluenza alle urne da parte dei cittadini anche nelle nostre zone. I successi elettorali sembrano non misurarsi più sui voti conquistati, ma sulla capacità di contenere le perdite di elettori. A percentuali anche molto incoraggianti non corrispondo mai aumenti dei consensi reali.
Noi che crediamo nella democrazia e che pensiamo che il regime democratico liberale sia la condizione migliore per difendere i ceti più deboli, per realizzare nuove conquiste civili e per fare avanzare le istanze di eguaglianza nella società italiana, non possiamo che guardare con vero e proprio terrore questi dati, anche se ci consegnano qualche punto di percentuale in più rispetto al passato. Cara Schlein, caro Bonaccini, questi dati ci dicono, molto più di qualche vigliacca esibizione di saluto romano, che in gioco oggi non è qualche seggio in più, ma l’esistenza stessa di questa nostra democrazia.
Dobbiamo mettercelo bene in testa, la principale se non unica maniera di difenderla è di riportare alle urne i cittadini.
Come farlo è il vero problema. Se dovessi semplificare all’estremo direi che la formula da scoprire (dico scoprire per di questo si tratta, visto che nulla in passato ha avuto queste dimensioni) risiede nella capacità di motivare, di rendere orgogliosi i propri sostenitori, di esaltare la loro domanda identitaria, ma nello stesso tempo di fare capire ad una parte dell’elettorato che è sempre maggiore e che non sa cosa farsene di un voto identitario, che la nostra essenza più vera è quella che mette gli interessi del paese prima di tutto, prima ancora delle nostre bandiere, che al primo posto ha la soluzione dei problemi, la difesa di chi è debole e diverso, ma anche dei tanti cittadini italiani che hanno meriti da fare valere, nelle professioni, nel sapere, nell’impresa. Perché i nostri antenati all’inizio del secolo scorso erano orgogliosi di mandare avanti il mondo grazie alle loro fatiche e al loro ingegno e chiedevano lavoro, non sussidi. Lo ricordate cosa cantavano? “Chi non lavora non mangerà!”
È vero, il popolo di sinistra che abbiamo conosciuto per tanti decenni, come lo ricordiamo, non esiste più, soprattutto non esiste nella sua narrazione più banale e purtroppo più consolidata. Abbiamo nostalgia di Berlinguer, ma preferiamo dimenticare che i suoi successi elettorali più importanti il PCI li ottenne nella stagione del Compromesso Storico, una strategia molto distante dalla pura esaltazione identitaria. Anche le grandi conquiste civili, come la legge sull’aborto, furono ottenute grazie a quella capacità. Facciamo fatica a ricordarci che quel giorno di voto sull’Aborto, di referendum ne votammo due e li vincemmo entrambi, uno contro la destra confessionale, l’altro contro il radicalismo divisivo.
Oggi tutto è più difficile, ma mi pare evidente che se non riusciremo a tenere insieme identità e capacità di rappresentanza della società reale, l’allontanamento dal voto diventerà endemico e questa peste finirà per uccidere la nostra democrazia.
*Già senatore della Repubblica