Nessuno dei protagonisti di questa storia porta un nome. Una prima persona, un lui, una Lei e una città sconfinata ancora da conoscere
Fallaci, un ciclope nella sua grotta, una gorgone che pietrifica da dietro la sua scrivania e i tasti della macchina per scrivere “una di quelle antiche col rullo”
– Lo “scrittore” del titolo non è altro che Lei, con la maiuscola. Quella che non si può nominare e davvero il suo nome non viene mai pronunciato in questo piccolo breve romanzo, che poi è una storia vera. Che poi è Elena Perazzini, che si racconta. Parla di Lei tutto il tempo cercando di parlare di sé stessa e interpretare quello che le accade, fuori e dentro. Un lavoro nuovo e inaspettato, che diventa un confronto e una sfida quotidiani. Da una parte la giovane, indecisa, meravigliata Elena, appena sbarcata a New York e determinata a rimanerci. “Per fare cosa?” È la domanda ricorrente. Dall’altra parte della rete una icona del giornalismo italiano, autoesiliatasi dal mondo per diventare figura mitica, un ciclope nella sua grotta, una gorgone che pietrifica da dietro la sua scrivania e i tasti della macchina per scrivere “una di quelle antiche col rullo, con la leva per andare a capo”. O attraverso la voce severa che fa vibrare il filo del telefono.
A dire il vero nessuno dei protagonisti di questa storia porta un nome. Una prima persona, un lui, una Lei e una città sconfinata ancora da conoscere. Così comincia l’avventura di Elena nella Grande mela. Come un pudore ancora vivo, quasi che quel divieto all’inizio delle storia, di tenere nascosto a tutti l’identità e l’indirizzo della sua datrice di lavoro, sia ancora valido. Anche dopo cinque anni dalla scomparsa dello “scrittore” e dopo tanti di più che questa storia ha avuto termine e ha dato inizio a tutto il resto.
Così lo “Scrittore” è Oriana Fallaci, la Signora. Chi conosce la sua storia e la sua tomba, al cimitero degli Allori di Firenze, capisce il perché di quel sostantivo. Al maschile, perché il neutro dal latino ha lasciato posto a soli due generi. Ma lo “scrittore” non è un essere umano qualsiasi.
Elena, sbarcata in America con la confusa passione per il racconto, si trova all’improvviso a fare da assistente a una delle più grandi e controverse figure di tutto il giornalismo contemporaneo. Un battesimo i cui particolari ha tenuto per sé in tutti questi anni. Una prova del fuoco che avrebbe potuto minare qualsiasi volontà di fare, di realizzare quel sogno che poi ha preso forma nel suo primo romanzo “Tre stop a New York”, del 2009, e in questo flash autobiografico che precede i prossimi racconti in uscita.
L’esordio è una fucilata in pieno petto: “…Sì ma cosa ti piacerebbe fare?”, “Mi piace scrivere”. “È la peggior cosa che potessi dire”. Elena quotidianamente prende le telefonate, cura gli impegni e fa da servitrice a questa sacerdotessa della parola, chiusa nel suo recinto sacro il cui accesso è precluso al mondo di fuori. Un po’ come l’arte dello scrivere sembra essere il rito di un culto destinato a pochi eletti. Pochi mesi e poche pagine per scoprire gli spigoli e le “cattiverie” di un’anima solitaria e tristemente aristocratica, pur in tutta la sua grandezza. Che però piano piano sembra aprire un po’ sé stessa a una segretaria/personal assistant. “In quei momenti cambiava tono e modo di fare, si rilassava. Sembrava quasi una conversazione alla pari. Tutto questo durava una mezz’ora, poi tornava quella di prima”.
Esiste un “rumore di fondo”, un filo conduttore sotteso a tutto il loro rapporto: la parola scritta, cioè l’immortalità. “Mi diceva: ‘Non ti buttare nella scrittura perché non ne esci più’ – racconta l’autrice mentre ripercorre, una volta ancora, con la mente, quelle conversazioni così cariche e importanti, seduta al tavolino del caffè sul lungomare di Cattolica – questo non l’ho scritto nel romanzo ma io l’ho visto come una provocazione, un ammonimento al contrario, che in realtà voleva dire ‘Provaci!’”.
Ironia della sorte proprio la violenza fatta alla lingua, la deliberata distorsione del significato di una parola (assistente o segretaria), non importa di chi sia la ragione, è il pretesto per il licenziamento improvviso e feroce. Oppure la chiave per liberare la catena dal lucchetto con un semplice commiato di una riga.
Al di là della curiosità per un personaggio come Oriana Fallaci, Elena racconta soprattutto della sua battaglia, che ha vinto, contro sé stessa. Delle scornate contro il muro dell’impossibile e della fiducia ritrovata nelle proprie capacità, soprattutto dopo un passaggio di pochi mesi sotto uno schiacciasassi come Lei.
Lo scenario è naturalmente New York, una città che sembrava così grande e ora somiglia sempre più a casa sua. La condivisione della scoperta assieme al suo compagno di allora, che adesso è diventato suo marito: Emanuele. “Ricordo che allora ogni posto sembrava nuovo, ogni angolo di strada era una scoperta – dice Elena – adesso se passo in alcuni quartieri riesco a notare le differenze da qualche anno fa. Sono io che chiedo ora a chi ci viene per la prima volta, quali sono le sensazioni, quali impressioni da questa città”. Anche troppo facile trovare differenze con l’Italia: “Ho fatto tanti lavori in America chiarisce – perché c’è la possibilità di mettersi in gioco. Il saper fare tante cose è visto come ecletticità, come un pregio, non come un disordine o una dispersività. Fossi rimasta in Italia probabilmente non avrei trovato il coraggio di andare fino in fondo”. Così c’è anche il prestesto per parlare del suo nuovo lavoro: una serie di racconti, di storie vere, che Elena ha raccolto: parlano di successi e fallimenti di italiani nel nuovo mondo. Conoscere un luogo significa saperne raccontare le storie con l’umiltà di chi scende in strada e si mette ogni giorno in gioco. E forse è proprio la differenza tra l’essere una scrittric e non uno “Scrittore”.
di Matteo Marini