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Home Cultura

Ventotene è un documento di grande attualità

Redazione di Redazione
23 Marzo 2025
in Cultura, Economia, Regione Emilia Romagna
Tempo di lettura : 6 minuti necessari
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Tratto da alvoce.info

 

di Leonzio Rizzo, professore ordinario di Scienza delle Finanze a Ferrara

Il Manifesto di Ventotene è alla base dello sviluppo del capitalismo europeo così come lo abbiamo conosciuto dal dopoguerra a oggi. Ma soprattutto prefigura uno stato europeo in grado di dialogare da pari a pari con gli Stati Uniti e i paesi asiatici.

Una forte spinta ideale

In un momento drammatico per il mondo intero nel giorno in cui la presidente del consiglio era chiamata a riferire alle Camere sulla posizione dell’Italia in merito al tema della spesa europea per la difesa, esplode la polemica sul Manifesto di Ventotene.

Il Manifesto di Ventotene è stato scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. I tre si trovavano al confino, l’Europa era sotto il controllo tedesco e non si sapeva ancora come la guerra sarebbe andata a finire.

È un documento dalla forte spinta ideale e propulsiva per la ricostruzione non solo fisica, ma anche morale di una società distrutta. Come tale è ovviamente possibile riscontrarvi affermazioni che oggi possono risultare di poco senso, che quindi vanno contestualizzate all’epoca in cui sono state scritte.

Tuttavia, il Manifesto contiene indicazioni rilevanti per la costruzione di un equilibrato sistema economico basato sulla libera iniziativa privata che secondo Spinelli, Rossi e Colorni può essere resa possibile solo con la costituzione di uno stato europeo federale.

La questione della proprietà privata

La polemica di questi giorni può dare un’impressione diversa, ma il Manifesto non è affatto avverso alla proprietà privata come fondamento per l’esercizio della libertà individuale in campo economico. Si dice semplicemente (questo è il passaggio citato dalla presidente Meloni) che “la proprietà̀ privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”.

L’ idea è stata fatta propria dalla nostra Costituzione all’articolo 42, al secondo comma, dove si legge che “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti [cfr. artt. 44, 47 c. 2]” e al terzo comma: “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”.

Dal punto di vista economico si tratta di concetti consolidati che derivano dal fatto che non sia sempre possibile definire i diritti di proprietà – come quando ad esempio ci troviamo di fronte a beni cosiddetti pubblici o con forti esternalità – o che ci troviamo di fronte a un sistema industriale ove i costi fissi sono talmente elevati che la struttura proprietaria più conveniente è quella monopolistica. Gli economisti definiscono tali situazioni fallimenti di mercato, che conducono ad allocazioni inefficienti dei beni e servizi o addirittura alla totale assenza del bene di cui si necessita.

Sfogliando un qualsiasi manuale di economia politica I del corso di laurea in economia vi troviamo indicate due possibili soluzioni: o lo stato nazionalizza e produce tali beni oppure regolamenta la produzione e il prezzo dei medesimi, tramite l’utilizzo di tariffe, tasse e sussidi. Il Manifesto redatto a Ventotene si concentra in particolare sul pericolo dei monopoli naturali. Il tema è di particolare interesse, soprattutto se si pensa ai monopoli privati nell’ambito satellitare con i quali oggigiorno si rischia la perdita di sovranità di interi stati nazionali. Il documento afferma che “non si possono più̀ lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività̀ necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo ma che, per reggersi, hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore ecc. (l’esempio più̀ notevole di questo tipo d’industria sono finora in Italia le siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato, imponendo la politica per loro più̀ vantaggiosa (es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, grandi armamenti)”. È il motivo per cui la rete elettrica è stata nazionalizzata negli anni Sessanta. Ovviamente, anche questo passaggio va contestualizzato. Vi sono infatti alcuni settori che ottanta anni fa avevano una tecnologia con alti costi fissi, che quindi li rendeva dei monopoli naturali ed ora invece non sono più tali (si pensi al settore della telefonia). Nel passo citato vi è poi attenzione a evitare concentrazioni di attività economica motivate non da esigenze tecnologiche, ma da comportamenti strategici che rendono sconveniente o molto difficile l’entrata di altri competitori, come avveniva (e avviene) ad esempio nel mondo bancario e finanziario e da ultimo con i grandi colossi digitali e satellitari, che ormai rappresentano una vera minaccia per la tutela del sistema economico e di diritti in Europa. Un’autorità antitrust europea compatta è essenziale per evitare la formazione di tali concentrazioni o che tali colossi, la cui dimensione è tollerata fuori dall’Europa, possano avere effetti negativi sul benessere dei consumatori europei.

Nel Manifesto ci sono poi due punti in cui ci si pone il problema della distribuzione delle risorse risultante dall’agire delle forze di mercato. Anche questo è un tema su cui gli economisti dibattono da anni andando alla ricerca dei modi più efficienti per assicurare una distribuzione accettabile dell’output conseguente all’agire del meccanismo di mercato. È per questo che tutti i sistemi occidentali hanno importanti sistemi di tassazione (in genere progressivi, ahimè, solo sui redditi da lavoro dipendente) che provvedono a finanziare i beni pubblici che il mercato non è in grado di fornire e a redistribuire i redditi, sia ex-post che ex-ante, per poter mettere tutti nelle stesse condizioni di partenza all’interno del sistema economico di mercato.

Tutto ciò può essere fatto solo con uno stato che garantisca i diritti civili e sociali di tutti cittadini, a qualsiasi classe sociale essi appartengano e senza porre i loro interessi in contrapposizione. Ciò implica anche che gli stessi stati nazionali non debbano essere posti in contrapposizione tra loro per conquistare spazi di influenza, ma debbano collaborare ed interagire tra di loro per garantire un’equa e corretta competizione tra tutti gli attori economici del territorio europeo.

Il sogno di una Federazione europea

Il Manifesto recita in modo incredibilmente attuale: “la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più̀ lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”. Si intravede quindi già da allora la necessità di uno stato europeo che avrebbe dovuto dialogare con gli Stati Uniti e gli stati asiatici (oggi Cina e Russia). Lo stato – si dice nel Manifesto – deve avere “i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.” Quest’ultimo passaggio al nostro tempo implicherebbe la costituzione diuna vera federazione. Nella Ue attuale, ad esempio, la difesa non è semplicemente sottoposta al potere di veto di ogni singolo membro; è una competenza degli stati, non dell’Unione.

Il primo passo per realizzare il progetto è ovviamente proprio la costituzione di una difesa comune, con unico esercito. Oggi la difesa comune è vista come necessaria per difendere quindi i valori e il sistema economico che la federazione intenderebbe tutelare. I fondi di cui si discute in questi giorni andrebbero però diretti verso un reale progetto di difesa comune e non verso un irrobustimento dei singoli sistemi di difesa nazionale. Come il Manifesto già preconizzava (nel 1941), se ognuno va per la sua strada, armandosi per tutelare la propria nazione, cioè se non facciamo passi per l’unificazione politica, il rischio di ulteriori conflitti tra nazioni europee si potrebbe riproporre, magari non nell’immediato, ma in prospettiva.

Il punto cruciale del documento

In conclusione, il Manifesto di Ventotene, a parere di chi scrive, può essere letto come la base del capitalismo sviluppatosi negli anni successivi in Europa con un welfare-state robusto che tutela gli individui dai fallimenti del mercato e dalle possibili iniquità che questo potrebbe generare. Quindi la polemica innescata dalla presidente del Consiglio sembrerebbe proprio infondata. Nulla, tuttavia, è stato detto sulla sorprendente (forse per alcuni) attualità in relazione alla situazione politica che stiamo vivendo. Il Manifesto vede nella formazione di uno stato federale europeo politico la soluzione di potenziali conflitti futuri basati sull’esaltazione dei nazionalismi. È questo il vero tema legato al documento di Ventotene, ed è quello di cui si sarebbe dovuto discutere in Parlamento.

L’Italia è disposta a cedere sovranità politica a un livello di governo superiore (quello federale europeo), per la gestione in modo integrato di politiche che hanno ormai enormi interconnessioni tra uno stato e l’altro? Siamo disposti a riconoscere l’esistenza di beni pubblici europei come la difesa, la sicurezza, la giustizia, la tutela dagli abusi di mercato, la gestione della politica commerciale e della politica estera? Se sì, saremo in grado di risparmiare molte risorse, evitando dei duplicati e soprattutto saremo in grado di tutelare i diritti e il benessere dei cittadini in modo uniforme sul territorio europeo, anche da possibili e probabili intrusioni di nazioni esterne nel tentativo di imporre il proprio sistema di regole, a tutela dei propri interessi economici. Se non andremo anche molto in fretta verso questa strada e avremo cura solo della patria Italia, pensando l’Europa come una semplice somma di stati, saremo semplicemente destinati a scomparire dai radar.

 

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