di Angelo Chiaretti
Mi è piaciuto riscoprire questo vecchio aforisma per trattare della crisi d’identità in cui versa il corpo docente nei nostri giorni (è di ieri il caso della studentessa che ha definito “lavavetri” una sua professoressa!).
Decine di sociologi, psicologi, analisti comportamentali, pedagogisti e così via si stanno impegnando a fondo per scoprire le cause di una situazione che sembra peggiorare di giorno in giorno.
Così sono stati incolpati i genitori, rei di aver smarrito la “retta via” e dunque di non riuscire più a fare sentire la propria voce ai figli adolescenti o giovani.
Altri ne hanno attribuito la causa alla irrisoria retribuzione riservata al personale docente, mortificato da uno stipendio non corrispondente all’immensa responsabilità di provvedere degnamente all’educazione ed all’istruzione delle giovani generazioni.
Altri ancora hanno puntato il dito accusatore sul precario rapporto scuola-mercato del lavoro, così disarticolato da scoraggiare anche il più motivato dei docenti e degli studenti.
Altri, infine, l’hanno attribuito, ancora una volta sociologicamente, al declino, al collasso della società contemporanea, che ha soffocato il valore dell’istituzione scolastica nel grande mare della fine di un ciclo sociale, civile e culturale.
Ecco perché, l’incredibile situazione venutasi a creare nella scuola ha colpito la mia sensibilità di ex docente, giustamente a riposo dopo una lunga esperienza negli Istituti di II grado.
Così ho provato a chiedermi dove stiano le cause della malattia, come sia possibile che una giovane studentessa arrivi a definire “lavavetri” (come abbiamo visto) un proprio docente adulto e quale possa essere la terapia di un male che possiede tutte le caratteristiche per essere classificato come incurabile.
L’indagine ha richiesto un periodo abbastanza lungo in termini di tempo e di quantità di casi esaminati, per giungere ad una conclusione che potrebbe sorprendere (e sollevare un vespaio di obiezioni: la causa di un malessere così diffuso è una sola, va attribuita al corpo docente e si chiama MANCANZA DI PROFESSIONALITÀ!
Mi sembra già di sentire le grida offese dei miei ex colleghi, tuttavia mi sono dotato del necessario coraggio per sottoporre a giudizio l’aver adottato un metodo didattico incentrato sul rapporto “alla pari” fra docente e discente -lo stesso errore è stato commesso fra genitori e figli-, nel quale non trovano più posto il principio di autorità (non autoritarismo, si badi bene) ed il valore della formazione culturale (non il “culturame” di fanfaniana memoria), civile e morale.
Solamente in questo modo è stato possibile creare una voragine tanto abissale e, forse, incolmabile.
Infatti, impostando pedagogia e didattica “alla pari” ed in nome di una falsa democratizzazione (demagogia), il ruolo del docente si alleggerisce delle problematiche relative alle differenze generazionali, diventa più facile, più comodo, meno impegnativo, quasi ludico, subdolo contestatore dell’ ingiusta retribuzione ricevuta. Diventa disimpegno, destabilizzazione dell’istituzione scolastica e civile, trasformandosi automaticamente nella ridicolizzazione di ogni forma dì apprendimento e di aggiornamento.
Insomma, è un serpente che si morde la coda!
In un quadro siffatto, riuscite a trovare uno studente che passa le sue giornate sui libri o sulla tastiera di un computer, che torna a casa orgoglioso di un buon voto conquistato, di un obiettivo raggiunto, che intravede all’orizzonte il proprio inserimento nel mondo professionale e nella società degli adulti?
Sarebbe canzonato e incompreso dai compagni e dai docenti stessi!
La mia lamentazione potrebbe continuare ancora a lungo, forte di dati incontestabili e verificati, perciò, di fronte al malessere, pericolosissimo, del mondo docente
ribadisco che CHI È CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO!