di Giovanni Lentini
Non è per essere ribelle, o per cogliere l’occasione di questo “palcoscenico” per lanciare messaggi rivoluzionari o promozionali. Il testo che segue è un passo del mio libercolo “Andarsene dal Carcere” che ho scritto nel 2014 e nonostante siano passati 11 anni, oggi sembra più attuale di allora. “In questi ultimi anni è aumentato esponenzialmente l’interesse intorno al pianeta carcere. Si sono rinnovati e moltiplicati i discorsi che lo riguardano, è stato analizzato da distinti approcci epistemologici, è stato sottoposto a feroce e impietosa critica. Si è insomma prodotta una conoscenza che non è riservata esclusivamente agli addetti ai lavori, ma è accessibile a tutti. Ma a che cosa è servito aumentare la conoscenza sul carcere? A niente se non a rinvigorire il suo statuto di legittimazione sul piano simbolico e su quello reale. Resta ancora qualcosa da fare? Niente…”.
Ma almeno troviamo la forza ed il coraggio di ammettere che il carcere è un sistema autoritario atavico che nega le libertà primarie di esseri umani, che disgrega le famiglie, che è il segno indelebile del fallimento di una società, che volendo garantire la giustizia a forza di leggi e di restrizioni, annienta la dignità di una persona umana riducendo l’esistenza a semplice apparato biologico. Tutto ciò, in nome e per conto del “bene comune”, della “sicurezza” e della “regola”. Regole che dovrebbero essere osservate da tutti. Tutti, ovviamente, vuol dire anche e forse prima da chi le regole è tenuto a definirle (il legislatore e il potere politico), e ad amministrarle (l’ordine giudiziario, le istituzioni in generale e in particolare, quelle preposte all’esecuzione della pena). Ma il problema del carcere non riguarda solo i giuristi e i tecnici o i diretti interessati. Tutti significa che ognuno è chiamato in causa, nella società e davanti alle nostre coscienze. Come scrisse una donna dopo la morte di un giovane suicida nel penitenziario di Spoleto: “Ogni uomo che si toglie la vita in carcere lo fa anche per causa mia, per un qualcosa che io non ho fatto, per un’attenzione a una sofferenza che non ho voluto o saputo vedere”.
Resta ancora qualcosa da fare? Lo ribadisco ancora, noi non possiamo fare niente, anche se basterebbe poco per cambiare le cose, infatti si potrebbe mettere in pratica l’unica regola, La Regola d’Oro: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro, questa infatti è la legge ed i Profeti”. (Mt 7, 12). Solo così si eviterebbero le disuguaglianze e i disagi sociali.
Resta ancora qualcosa da fare? Forse sì, qualcosa si potrebbe fare. È necessario infatti continuare a combattere perché lo stesso principio della pena deve avere i suoi limiti. Convincersi e convincere che l’uomo come personalità completa non può essere un criminale e non può essere trattato come incarnazione del delitto, rimane persona, in lui è l’immagine di Dio. La persona non appartiene interamente e definitivamente allo stato e alla società. La persona è cittadina del regno di Dio, non del regno di Cesare, e i giudizi e le condanne di cui è oggetto sono parziali, non sono mai definitivi. Come diceva, se non erro il Cardinale Carlo Maria Martini: “Non c’è positività, non c’è il buono possibile nell’uomo in catene; c’è la sua mortificazione e semmai una spinta a essere peggiore… il carcere, insomma, è un prodotto dell’uomo e in quanto tale ha avuto un inizio ma può dunque avere una fine, per lasciare il posto a qualcosa di meno distruttivo… non bisogna cercare pene alternative, ma alternative alle pene…”.
Lentini Giovanni