di Tommaso Giagnolini
Non è facile tornare a casa dopo un conflitto che alcuni come Wells l’aveva definito: ”La guerra che porrà fine a tutte le altre”. Con un po’ di speranza e felicita addosso, ma Pino era energico di rivedere la propria famiglia.
Domenica 24 novembre 1918
Era un mezzogiorno di inverno ed erano passati più di venti giorni dal trattato di Villa Giusti che sanciva la fine del conflitto e la vittoria italiana sull’impero austro-ungarico, e questa notizia fece diventare felici molti fanti e soldati, che dopo più di quarantuno mesi di combattimenti, ritirate e battaglie, tra cui quella di monte Grappa e Vittorio Veneto, ahimè bisogna ricordare anche Caporetto, dove non abbiamo fatto una bella presenza.
Intanto nelle campagne calabresi, verso la cittadina di Paola che sboccava sul mar Tirreno ed era famosa solo per aver dato alla luce san Francesco da Paola che divenne il simbolo e protettore della città, stava camminando e fischiettando con una divisa militare, con una giubba grigioverde con un colletto rivoltato, pantaloni corti da alpino e un fez nero da bersagliere, un soldato che con la testa piena di bei ricordi e molto felice di rivedere la sua amata famiglia; quello era Pino Perri, un benestante cittadino di Paola.
“Ohi, Volpi finalmente Fini a fatica, sì tornatu!” disse un ragazzino a che stava seduto su una staccionata che serviva per dividere la strada con i campi di grano, accompagnato da un altro suo coetaneo con i capelli rossi. “Visto?, tuo padre ora deve pagarmi per la scommessa!”, disse felicemente, perché alla sua chiamata d’armi nell’agosto del 15 aveva scommesso più di 10.000 lire se fosse tornato vivo e vegeto a casa.
La campagna diventava sempre più città e i prati diventavano strade e viuzze di mattoni e pietra; da lontano si vedevano le case più alte e la Torre del Soffio, antica fortificazione del ‘500. Pino era, come chiamavano i suoi coetanei, un ”tassone” sulla trentina d’anni, con capelli neri e due sottili baffi, come un gentiluomo dell’alta borghesia, anche se di borghese aveva solo il carattere, che era molto gentile e altruista verso i suoi compari e vicini anche se lo chiamavano per scherzo Volpi, non sapeva perché, ma lo prendeva alla leggera.
La cosa che non dovevi toccare a Pino era la sua famiglia, e se l’avessi toccata, lui sarebbe diventato una furia ed era per questo che era molto felice quando svoltato per quattro viuzze ed essere giunto davanti a una casa molto semplice e normale, con un tetto rosso e l’edera che cresceva sui muri, il cuore gli saltò nel petto dalla gioia e salì velocemente le scale. “Amore dove sei?”, urlò come un ragazzino quando torna a casa dopo un bel voto, ma nessuno gli rispose in quel momento e poi ripetè, credendo che non avessero sentito, ma con un polpo dietro la sedia a Pino lo avvolse un caldo abbraccio: “Come credevo mia amata Cosima”, disse, parendo ovvio che era sua moglie.
“Miciu miu, mi si è mancatu assà pe’ sti anni!”, rispose in dialetto calabrese sua moglie che da quanto l’aveva lasciata non era invecchiata neanche di un giorno ed era rimasta sempre bella e prosperosa e per questo un sacco di uomini l’avevano corteggiata, ma come Penelope con Ulisse, aspettava solo il suo vero amore, ovvero Pino.
Seduti a tavola per pranzare, Pino chiese a sua moglie: “Amore, dove sono i nostri cuccioli?”. Poi con la bocca piena di pane con formaggio, che stava mangiando come antipasto gli rispose: “Spartin è a studiare da una sua amica, e Ideo è a giocare con i suoi amici alla fontana dei Sette Canali!”.
“Dimmi amore come sono diventati quei due mascalzoni?”. “Miciu, hannu chiestu sulu di tia pi chisti anni.” Rispose in dialetto e poi dalle scale, si sentirono dei passi veloci: “E’ arrivato”, disse con un tono felice alzandosi dalla sedia e andando ad aprire alla porta.
“Ideo vai che è pronto!”, poi lo abbracciò, ma quando il piccolo Ideo di 10 anni rivide suo padre, prima si fermò come una statua di pietra e senza neanche respirare, gli scese una lacrima e poi corse ad abbracciarlo, e infine disse in lacrime: “Papu, mi mancavi assai!”. “Anche tu piccolo amore mio”, disse Pino in lacrime di gioia.
I tre, poi, si misero a mangiare un bel minestrone di verza, tipico di quella regione.
Mentre mangiavano tutti insieme, dopo un lunghissimo tempo, il piccolo Ideo, chiamato cosi dagli altri suoi coetanei (in verità si chiamava Martino come il padre di Pino e l’altro Giovanni come il suo bisnonno che era morto in una battaglia in Veneto durante la guerra austro-prussiana del 1866), ma anche se non lo aveva mai conosciuto, Pino aveva una grande devozione per lui: ”Papu, come è stato a giocare a dama in questi anni?”, disse Ideo non avendo idea come fosse una vera guerra.
Suo padre per scherzare disse con un tono felice: “Allora contro il mio avversario che si chiamava Kurt propose di sfidarmi a una partita di scacchi, e se avessi vinto io, avrei mangiato un panino con la mortadella che era su un tavolo, mentre se avesse vinto lui, viceversa”. “E alla fine chi ha vinto?”, domandò Ideo.
“Allora cosi il papà, si rimboccò le maniche e giocò per ben quarantun mesi consecutivi, ma alla fine feci uno scacco matto e vinsi contro di lui”.
“Miciu che fine ha fatto il nostro caro vicino Pezzo di Pan?”, cosi nominato un certo Mirco Russo vicino e amico di guerra di Pino, e per questo quando gli tornò in mente il suo ricordo, iniziò a balbettare: “Mirco em Mirco”, ma non resistette e cadde dal tavolo e iniziò a piangere. “Miciu!?”, disse Cosima preoccupata.
Decise di andare a calmarlo con suo figlio. “Perdonami per favore” disse in lacrime Pino; la moglie non capendo, lo provava a calmare come un bambino piccolo ancora in fasce, ma dopo un po’ smise. Cosima capì che era successo qualcosa di brutto a Mirco, ma non lo domandò e così ritornarono a magiare tranquilli la zuppa…











