RIMINI – Due murales nel Borgo San Giuliano sono suoi e in uno, tanto per rimanere nella “tormenta” di questi giorni, c’è proprio il Ponte di Tiberio nella grande nevicata del 1929. Maurizio Minarini era bambino quando inizia a dipingere, passa “malvolentieri” una vita come impiegato in un istituto di credito ma alla fine ringrazia il cielo di non aver mai lasciato quel lavoro (chissà poi perchè). Gli chiediamo: “Ma l’arte a Rimini?” e lui: “Gli artisti di un certo calibro snobbano”. Prima di passare all’incontro sfatiamo un luogo comune. Spesso si crede che gli artisti, dall’alto della loro sensibilità fuori dal comune, si nascondano dietro un velo di aurea superbia. Maurizio Minarini, tra i più celebri pittori riminesi, costituisce una felice eccezione. La cordialità sincera, il sorriso onesto e l’azzurro luminoso degli occhi (lo stesso delle sue tele) raccontano di un uomo che ha ricevuto un dono meraviglioso, ma con l’umiltà di chi non se ne approfitta per fama o per guadagno. Entro nel suo studio, una piccola stanza dalle pareti tappezzate di quadri, schizzi e fotografie.
Maurizio come nasce in lei la passione per la pittura?
Da bambino. Quando avevo quattro anni mio padre era prigioniero degli americani, in Sicilia, e qua a Rimini si bombardava, così dovemmo sfollare verso San Marino. Spesso noi piccoli ci rifugiavamo nelle cantine, ma io non sopportavo lo stare al chiuso là sotto. Piangevo, perciò mia madre, per calmarmi, mi dava un pastello e un pezzetto di carta. Quando iniziavo a scarabocchiare dimenticavo tutto quello che avveniva attorno. Ancora oggi se entro qui, in questo studio, con un problema per la testa, dipingere mi libera come un training autogeno. É un dono grosso, che mi ha sempre aiutato a fuggire dalle difficoltà della vita, evitando di prendere medicine. É, ed è stata, la mia personale valvola di sfogo.
Quando dipinge, lo fa in momenti particolari?
No, assolutamente. Per trentacinque anni ho lavorato in banca, dove avevo i miei orari fissi, sapevo quando entravo e a che ora sarei uscito. Con la pittura non è così. Posso stare fermo sei mesi senza far nulla, e magari in due giorni dipingere quattro quadri. Giusto ieri ho sporcato delle tele per tentare di smuovere quegli ingranaggi nascosti, ma non mi impongo mai tempistiche o tabelle di marcia. Dipingo solo quando c’è qualche cosa che mi fa lasciare tutto il resto e mi chiama qui nello studio. Momenti che possono essere brevi, a volte brevissimi, oppure un periodo di diversi giorni.
Prima ha detto di aver lavorato in banca per trentacinque anni…
(sorriso amaro) Chi ha la disgrazia di nascere con un briciolo di artista dentro, possiede un senso della libertà tutto personale; che non significa fare ciò che vuoi, bada, ma è piuttosto una diversa prospettiva da cui guardare il mondo. In banca avevo l’obbligo di andare vestito di grigio, camicia bianca (o al massimo azzurra) e cravatta. La mentalità e l’atmosfera dell’ambiente bancario mi disturbavano, soprattutto per un certo tipo di coercizioni e comportamenti dei colleghi. Per farti degli esempi: una volta, ad un concorso di arte sacra, vinsi un premio ex-equo di 50 mila lire. In un mese, in banca, ne pigliavo 73 mila e quella vincita corrispondeva allo stipendio di un insegnante. Mi premiarono di domenica e lunedì ero già sul giornale. Stavo lavorando allo sportello quando arriva uno dei funzionari, mi sbatte il giornale sotto il mento e mi dice: “Guarda cosa scrivono di te!”. Lì per lì mi spaventai, perché da come me lo disse pensavo mi avessero preso per un pedofilo o un ladro. Non solo, un giorno mi azzardai a presentarmi al lavoro con una camicia di un colore diverso. Inutile dire che mi rispedirono a casa, per farmela cambiare.
Pensò mai di lasciare l’impiego in banca per dedicarsi a tempo pieno alla pittura?
No. Oggi dopo cinquant’anni ringrazio Dio per avermi fatto lavorare in banca. Per un semplice motivo: in questo modo ho sempre dipinto quello che volevo, senza dover mai scendere a patti con i galleristi o i critici d’arte. L’occasione arrivò, ma questo avrebbe significato abbandonare una certa stabilità che, comunque, mi ero costruito proprio grazie al lavoro in banca. Con una famiglia sulle spalle, poi, non me lo potevo permettere.
La sua esperienza lavorativa ha influenzato il suo modo di dipingere?
Sì, ho attraversato diverse fasi. Quando lavoravo in banca, nei miei quadri prevaleva il grigio, il marrone, il bianco, il nero; le pennellate erano corpose, con una lavorazione a spatola. Riflettevano la rabbia che sentivo dentro. Poi c’è stata la fase dei rosa, dei gialli, dei verdi. Infine l’azzurro.
L’azzurro. Un colore che nei suoi quadri predomina spesso, dato che tra i suoi soggetti preferiti troviamo il mare, la nostra spiaggia e il molo del porto. Perché?
Studiando la Teoria dei Colori, ho scoperto che il blu collima straordinariamente con il mio carattere. Pensa che per un mese intero sono rimasto seduto qui nello studio con attorno cinque tele tutte dipinte di blu. Avevo bisogno di questo blu attorno. Di quelle tele, due sono diventate quadri. Il fatto che spesso dipingo il mare non è perché ne sia un appassionato. Preferisco le montagne. Tuttavia, quando cammino sulla spiaggia (soprattutto d’inverno) provo una grande sensazione di spazio e di luce. Ho letto che a chi nasce in riva al mare e fa dell’arte o poesia resta qualcosa dentro…
Di recente La Piazza si è occupata dei Murales di Borgo San Giuliano, che rischiano di scomparire. Anche lei ha lavorato nel Borgo. Ci parli di questa esperienza.
Fui uno dei primi ad essere invitati, nel 1980. Nel Borgo trovi opere di due gruppi diversi di pittori: quelli che rappresentano i personaggi felliniani e i paesaggisti. Quando mi invitarono dissi che non ero capace a dipingere le figure, ma che potevo occuparmi di ambientazioni legate a Fellini. Sono miei il Ponte di Tiberio sotto la grande nevicata del ’29 e la spiaggia dove un tendone da circo si alza nel cielo, con il Grand Hotel sullo sfondo (rispettivamente, in via Padella e in Via Marecchia). Le case vecchie, a differenza di quelle più moderne, hanno trattenuto meglio il colore. L’intonaco di una volta era meno idrorepellente e assorbiva moltissimo. Un vantaggio per noi pittori, un po’ meno per chi, in quelle case, ci abitava.
Ha ancora contatti con la Società de’ Borg? Sarebbe disposto a tornare a dipingere per la prossima festa di Settembre?
Se il tema e le idee mi stuzzicheranno, non lo escludo. Se non fosse che è troppo faticoso, andrei volentieri a dare una ripassatina anche ai miei vecchi Murales. Il punto è che il Borgo, in trent’anni, è cambiato profondamente. Una volta quando ti chiamavano entravi in contatto con gente semplice, grezza, ridevi delle “patacate” che si dicevano e stavi bene con loro. Ti sentivi onorato, ma soprattutto erano persone che non lesinavano solidarietà: appena potevano di portavano la scala, ti invitavano a cena. Si respirava un clima diverso. Oggi non so se troverei la stessa collaborazione.
Da pittore riminese, come vede il panorama artistico della nostra città?
Rimini è sempre stata molto chiusa, ma almeno una volta i rapporti tra i pittori erano diversi. Anche allora c’erano “i vecchi” e la nostra generazione cercava di carpirne i segreti. Allo stesso tempo, se organizzavi una mostra potevi star sicuro che loro sarebbero venuti a vederti; e magari il giorno dopo erano capaci di pubblicarti una critica positiva sul giornale, a titolo gratuito. Oppure il Museo della città chiedeva di comprarti un quadro…
E oggi?
Collaborando con l’assessorato alla cultura da diversi anni, mi è stato chiesto di raggruppare dodici associazioni di pittura. Io stesso faccio parte di un gruppo, “Artisti Riministi”, di dieci pittori e uno scultore. Ogni volta, però, che in questa città si organizza un evento o una mostra, succede che gli artisti di un certo calibro ti snobbano. C’è molta competizione. L’ideale sarebbe che il Comune organizzasse una esposizione allestita su tre sale: in una mostrare i “moderni” (i meritevoli si contano sulle dita di una mano), i “tradizionalisti” in un’altra, e poi dar spazio alle intere scuole di pittura, in modo che anche i più profani possano seguire un percorso chiaro nel panorama dell’arte riminese. Il Comune dovrebbe prendere la decisione coraggiosa di istituire una commissione esaminatrice, altrimenti si rischia di proporre al pubblico opere scadenti. E poi resta da risolvere il problema più ostico di tutti: la ricerca di spazi adeguati.
Lei è molto attivo in città, molti dei suoi quadri li dona in beneficenza, a quali iniziative ha aderito recentemente?
Io e altri cinque pittori abbiamo partecipato al progetto “Ospedale a Cinque Stelle”, donando all’Ospedale Infermi di Rimini 327 opere. Il mio contributo è stato di 32 quadri e 7 Murales. La scorsa primavera ho dipinto dei quadri che sono andati a un ospedale in Africa e al momento sono in contatto con Villa Salus. L’ultima mostra che ho organizzato, “Oltre la Soglia”, ha avuto un buon successo di pubblico ed è stata una grande soddisfazione. Da qualche anno, poi, vado nelle scuole vestito con il mio camice, la tavolozza e il cavalletto. Lavorare con i bambini mi diverte tantissimo; ma soprattutto è quando mi chiamano “Maestro” che vado in visibilio!
Alberto Biondi
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