– Mario Simoncelli, della famiglia dei Sanciòn, ha novanta anni e una vita lunga e intensa da raccontare che trae spunto, per iniziare, proprio dal suo nome. Il nome di battesimo infatti è Michele, ma a Cattolica nessuno lo conosce come tale, mentre tutti sanno che si chiama Mario. La ragione è presto detta. “La zia Franzchina (Francesca), sorella di mia madre Maddalena, era emigrata in America, in California. Quando ha saputo della mia nascita e che mi era stato dato il nome Michele, ha insistito perché venisse sostituito con Mario. Mia mamma, allora, le ha dato retta perché lei era americana, e quindi più furba?”.
I nomi, le parole, gli accenti e il dialetto costituiscono il filo conduttore di questa lunga storia, fatta di incontri e riconoscimenti, di nomi che evocano antiche e solidali amicizie. Inoltre, attraverso il suo racconto, possiamo ripercorrere la nascita del turismo a Cattolica, dei primi alberghi e di quei locali che l’hanno resa famosa in tutta la penisola. Nato nel 1912, Mario racconta di essere stato un bambino “canaglietta”. Non gli piaceva andare in mare, ha sempre fatto quel che voleva e quante botte ha preso!
“Una volta ero al porto con il mio amico Primo Masi. Eravamo in compagnia di due ragazzine, due bagnanti ospiti di Primo e così, anziché andare in mare con mio babbo, ho aspettato che la barca si allontanasse e sono rimasto a spasso in loro compagnia”. A 16 anni Mario va a fare la stagione all’Hotel Kursaal di Cattolica, prima come lift, poi come cameriere. “Allora il Kursaal era molto diverso. Lo chiamavano il Capanòn. Io dormivo nei sotterranei dell’altra ala, quella che è stata costruita, di fianco all’edificio principale, ma in un secondo momento. Erano tempi in cui Cattolica era frequentata dai signori di città, che possedevano le ville sul lungomare e la sera, d’estate, venivano al Kursaal a ballare. Tutto il paese accorreva per vedere le belle signore in quei magnifici abiti da sera.
C’erano i Masperi, l’ingegner Scarponi, i Manara (la cui villa era l’attuale Hotel Columbia), Patrignani il pittore con i figli Ebe e Toffolo, e gli Stoppani di Roma. Dopo la guerra non si è più visto nessuno. Hanno venduto le ville e nuovi proprietari si sono avvicendati. Era il 1928 e due incrociatori, due navi da guerra italiane, si erano fermate proprio davanti alla nostra spiaggia. Il comandante e gli ufficiali, nelle loro belle divise, la sera venivano a terra, a ballare alle feste organizzate nell’hotel”.
Dopo quella stagione, Mario prende la grande decisione di abbandonare la vita di mare e lo fa con un gesto che non lascia dubbi di interpretazione ai famigliari. Un giorno, arrivati nel porto di Pesaro, toglie incerata e stivali e li butta in mare. Quello stesso giorno, all’età di 16 anni, parte per Milano dove trova lavoro presso il bar-caffè della stazione centrale. Da Milano viene successivamente mandato a Roma dove lavora all’hotel Massimo D’Azeglio come cameriere, fino al 1939. “Eravamo in pieno fascismo. Mi ricordo che un giorno ho percorso quattro volte la via Viminale e per quattro volte la polizia mi ha fermato. Alla quarta perquisizione l’ho fatto notare all’ufficiale, che tra l’altro era sempre lo stesso, così mi ha portato nel posto di comando e ha chiamato l’albergo. Il proprietario era un vero fascistone e ha detto di lasciarmi stare perché ero al suo servizio e dovevo andare a lavorare. Roba da matti?”.
Nella Pasqua del 1939 Mario parte per la guerra. “Dopo un periodo di istruzione militare a Forlì, ci hanno messo a disposizione un treno merci fino a Bari. Durante il tragitto il treno è passato per Cattolica. Alla stazione era pieno di gente. Il treno era colmo di soldati. Io non avevo detto niente a mia mamma, ma lei l’ha saputo da alcune persone che mi avevano visto sul treno. Dopo tre giorni a Bari, sono arrivato di notte a Durazzo, in Albania. C’era una nave affondata, con a bordo Edda Mussolini, che era stata tratta in salvo, mentre molta altra gente lì era morta.
C’era la guerra, prima di arrivare abbiamo fatto avanti e indietro tre volte, scortati dal famoso cacciatorpediniere Calatafimi, un piroscafo e due “apparecchi”. Allo sbarco a Durazzo ci hanno dato tre sigarette “milite”. La sera dopo siamo arrivati ad Argiracastro, in Grecia, in una zona montuosa e siamo stati attaccati dagli aerei. La mattina io e Mucci (un amico di Cattolica) ci siamo ritrovati sparsi e tutti scorticati, e anche il tenente di Rimini, il dottor Piccoli, si è trovato in un gabinetto, tutto sporco! Da un posto all’altro, ho attraversato tutta la Grecia a piedi. A Misalungi ho fatto il servizio al porto come controllore delle barche.
C’era un bragozzo di Rimini che caricava farina. Sentivo parlare il mio dialetto e così ho chiesto: “devo fare un controllo però voi di dove siete che mi sembra di intendere il dialetto delle mie parti?”. E allora uno ha risposto: “non mi conosci a me che a so dla Catolga?” Era Mario Piròn, lui faceva il servizio di terra. Da Misalungi sono stato trasferito a Lepanto dove facevo il trasporto della popolazione verso Patrasso. Ho anche trovato un mio amico, Antonio Bucci di Cattolica. Con lui sono andato al porto dove c’era un bragozzo di Rimini che era stato mitragliato, si chiamava le “Due Rosine”. A bordo c’era Rino Tommassini, Cianci e i Pericoli, che erano i proprietari della barca. Ci siamo fatti festa, ma non potevano fermarsi perché facevano solo il transito. Dovevo andare a bordo a controllare con il capitano maggiore, ma erano i miei paesani? ci hanno dato da mangiare e da bere e anche le sigarette.
La notte seguente, invece, mentre ci apprestavamo ad un soccorso su un fiume, in tre siamo stati feriti dai partigiani greci. Una volta rientrati ci hanno mandati ad Atene, dove ho passato quattro giorni in ospedale. Da Atene siamo partiti con un treno ospedaliere e siamo arrivati in Serbia: c’era una tale miseria! Ho passato 12 giorni su quel treno. A Lubiana, dopo alcuni giorni, sono scappato dall’ospedale. Siamo rimasti tre giorni nella boscaglia, poi i tedeschi ci hanno catturati la sera, con il buio, e ci hanno messo in mezzo agli altri prigionieri. Io avevo 5 lire che mi aveva mandato la mamma Maddalena. Ho chiesto a due ragazzine del luogo di comprarmi del pane, hanno detto di si, ma io il pane non l’ho mai visto. Eravamo nel ’43, dopo l’8 settembre.
Il giorno dopo, invece, – questo lo racconto per dire che le persone non sono tutte uguali -, alla stazione, in partenza per la Germania, abbiamo chiesto ad un omone che stava davanti a un bar se poteva darci da bere. Ci ha regalato, di nascosto, un boccale di birra. Ho passato cinque giorni a Bonn in un campo di concentramento, poi a Berlino dove pulivo le camere dei malati, infine a Colonia dove lavoravo sui binari ferroviari. Da lì mi hanno mandato in una zona di campagna, a coltivare le patate, ma mi sono ammalato e mi hanno rispedito a Colonia. Qui ho incontrato uno di Morciano, Emi. Ci hanno assegnato allo smistamento carichi.
Poi, finalmente, una mattina, sono arrivati gli americani, le truppe di colore per l’esattezza. Buttavano da bere e da mangiare dai camion, era incredibile quanta roba avessero. Saliti su un treno, Emi ed io siamo arrivati ad Innsbruk, dove ho incontrato Roberto Tonti, detto Menelic. Gli ho dato una delle mie coperte e gli ho detto: “Ac vidìn tla Catolga”. Da Innsbruk sono arrivato a Cattolica alle tre e mezza di notte. Sono andato dalla zia Lina, con lo zaino e la mia coperta. Pesavo 32 chili. Ho visto affacciarsi una signora alla finestra che mi chiedeva ‘at si Mario?’. Ma io non riconoscevo più nessuno, erano passati sei anni”.
A questo punto Mario interrompe il racconto, la commozione prende il sopravvento, il ricordo di quella notte in cui riabbracciò la sua adorata mamma è ancora molto vivo. Subito dopo la guerra, “in qualche modo si doveva mangiare!”, Mario gestisce un’osteria con Alberto Leardini, proprio dove oggi sorge l’Hotel Suisse. In seguito, siamo ancora nel ’45, affittano il salone da ballo del Kursaal.
Si rifornivano alla pasticceria di via Fiume da Bettaccini, che faceva loro credito. Quando, però, si prospetta l’ingresso nella gestione del Fronte della Gioventù, decidono di lasciare l’attività.
Nel frattempo Mario ha conosciuto Dores, la figlia di Tigamo. Si dichiara la prima volta alla fine di una festa, al Monte Vici. Nonostante la madre di Dores la mettesse in guardia dicendole: “l’hai guardato bene? Quello non vive mica molto?”, Dores e Mario si fidanzano. Nel 1946 apre il Casanova, in via Matteotti dai Monetti, e Mario fa la stagione come capo servizio. “Era molto bello e si lavorava bene. Servivamo bibite, spremute, birra e vino. Suonavano dei complessi famosi e sono venuti anche personaggi di spicco. Abbiamo organizzato feste danzanti e cotillon!”.
Finita la stagione è partito per Milano. Nell’ottobre del ’47 si è sposato con Dores e poi sono partiti per la Svizzera. Tornati a Cattolica nell’estate del ’49, durante la quale Mario lavora al Sirenella, in autunno si trasferiscono definitivamente a Milano, dove risiedono fino al 1972 quando, ormai pensionati, “siamo tornati a Cattolica e non ci siamo mossi più”.