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Home Località Cattolica

Guido Paolucci racconta la via Dante di ieri

Redazione di Redazione
5 Luglio 2003
in Cattolica
Tempo di lettura : 6 minuti necessari
A A

Viale Dante, quando c’erano i greppi
di Guido Paolucci

[img align=left]http://www.lapiazza.rn.it/luglio/cattolica_dante.jpg[/img]

La via Dante del primo dopoguerra cominciava in via Fiume e finiva in via Venezia perdendosi in un sentierino sterrato fra ortiche e sterpaglie che risaliva fino al fitto canneto sull’argine del Ventena. Non era asfaltata, non aveva marciapiedi e pochi erano gli alberghi o gli esercizi che la costeggiavano, frequenti erano invece gli spazi vuoti fra le abitazioni o dietro le stesse, spazi che si aprivano sulla via Carducci da un lato o su via Del Prete dall’altro
Dal 1945 al 1950, erano i miei anni del liceo frequentato a Rimini, ho abitato al numero 30, ora è diventato il 62, nella bella villa della famiglia Calbi oggi sommersa dalle sovrastrutture commerciali che nascondono la facciata e occupano l’ampio spazio cementato anteriore, nonché i due corridoi esterni che arrivano al giardino posteriore confinante con la villa ex Proia su via Carducci. Un grande terrazzo al primo piano ed una sottostante stanza, sempre sul retro, erano praticamente a nostra disposizione, così come tutta la superficie perimetrale descritta. Se questo era il favoloso teatro non da meno erano gli attori, una decina fra adolescenti e bambini stanziali o provenienti dalle case vicine, che costituivano una squadra affiatata, ricca di inventiva, di progetti, di fantasia. Alcuni di loro sono scomparsi precocemente e sono certo che quello è stato il periodo più bello della loro vita.
Ma andiamo con ordine.
L’inverno del 44/45 era freddo e si pativa la fame. Cattolica era la retrovia del fronte passato da pochi mesi e le truppe di occupazione erano sparse per tutto il paese, i loro mezzi da sbarco in piazza del Mercato e al porto, i carri armati e le jeep alla stazione, i camion ed i cingolati alle Casette, i grandi depositi divisionali alle colonie, il punto di ristoro al Caffè Commercio, le partite di calcio fra canadesi e polacchi dietro il municipio, le ambulanze nella piazza della fontana, l’ospedale da campo al Kursaal. Al teatro Zacconi saltuariamente c’erano spettacoli di varietà o concerti per i militari, ma il town major rilasciava qualche biglietto anche per i civili. Alla domenica mattina le bande reggimentali si esercitavano per le strade con le cornamusa. Sulla spiaggia c’erano ancora i reticolati e parallele alla battigia correvano le grosse condotte – le pipe line – che dal sud rifornivano di benzina e nafta le divisioni dell’ottava armata e gli aeroporti tattici della Desert Air Force.
La corrente elettrica non c’era e si faceva luce con i lumi a petrolio e con le candele prodotte in casa; le scorte di carbone e di legna erano esigue e pertanto furono abbattuti e segati prima gli alberi dei viali e poi anche divelte le radici; i cappotti erano pericolosamente derivati dalle coperte militari tinte – per la polizia militare era un reato grave – mentre i passamontagna, i guanti e le sciarpe erano le trasformazioni di indumenti riesumati; al mercato c’era ben poco da comperare con le am-lire, la carta moneta in circolazione, ma io ricordo solo i cardi che da allora ho odiato per tutta la vita.
Via Dante, come le altre vie, era immersa nel fango, nei muri delle case una scritta nera annunciava che la squadra disinfestazione col DDT era passata, alcune abitazioni abbandonate erano senza persiane e senza porte, altre erano occupate dai militari. Nell’angolo sud con via Brescia verso monte c’era una mensa militare da cui uscivano fumi e profumi deliziosi, visioni di pane bianco e scatolette di corned beef, fugaci immagini di piccole ciambelle rotonde glassate, di barattoli con latte evaporato, di caramelle col buco e gomma da masticare al gusto di menta piperita e chiodi di garofano.
Con gli amici all’imbrunire andavo a frugare nei bidoni dei rifiuti.
La nottata passò: l’avanzata alleata, fermata in questo triste inverno sul fiume Senio e sulla Futa, riprese vigore, Bologna, Milano furono liberate e con la primavera la guerra si avviò alla conclusione nei primi giorni di maggio in Europa e a metà agosto nel Pacifico.
Quando anche le ultime truppe di retrovia lasciarono Cattolica, la vita cercava di riprendere gli abituali cicli stagionali centrati nel periodo estivo sulla spiaggia, Ma in quella prima stagione del dopoguerra l’arenile non era agibile perché non erano ancora state rimosse le strutture belliche dislocate dal porto alle colonie. I bagnini concessionari delle zone limitrofe al citato ospedale da campo hanno poi rinvenuto per diverse stagioni, dentro grandi fosse, membra umane disarticolate, omeri e femori, mani e piedi amputati, dita scheletrite, macabri reperti della intensa attività di chirurgia di guerra. Un altro fenomeno strano fu la scoperta che tutta la sabbia era imbibita dai carburanti tracimati dalle giunture di quelle grandi condotte risalenti lungo la costa e che bastava fare una buca profonda mezzo metro per veder galleggiare sull’acqua la benzina o la nafta. Tutta via Dante e le altre vie contigue si riversarono a spiaggia con cariole e carretti, con badili e contenitori di varia foggia dalle bottiglie ai fiaschi, dai secchi alle damigiane, dalle taniche ai bidoni, dai mastelli alle vasche da bagno.
Ho ancora vivissima in mente l’immagine della spiaggia con centinaia e centinaia di buche da cui fuoriuscivano a mezzo busto uomini, donne e bambini operosi e brulicanti come in un termitaio o come nelle illustrazioni dell’inferno dantesco del Dorè. Alla notte le operazioni continuavano ed il quadro era ancora più suggestivo, quasi spettrale, perché al debole chiarore delle precarie sorgenti di luce la spiaggia sembrava un grande cimitero con i fuochi fatui che danzavano fra gli zombi. Poi improvvisamente l’avventura finì per l’estinzione della falda e sulla spiaggia rimasero le cicatrici nerastre delle buche che ricordavano in miniatura i crateri delle bombe attorno al ponte Conca e alle colonie.
Ma ritorniamo a quei ragazzini che abitavano la via Dante del primo dopoguerra e diamo la parola, la penna, ad Aldo Calbi che da me sollecitato così mi scrive.
“Nel secolo XX°, alla fine degli anni 40 la casa di via Dante nr. 30, ora nr. 62, a Cattolica naturalmente, era frequentata da numerosi ragazzini, venivano anche dalla Piazza e dalle Casette. Erano attratti dal campetto da calcio in cemento sul davanti, dove con la palla da tennis si poteva giocare un calcetto a quattro. Dal carriolo più veloce del paese, con le ruote d’allumnio dei leveraggi di uno Spitefire. Dal Monopoli in lingua inglese, con Park Lane al posto di Parco della Vittoria. Dalla roulette dove si potevano rivincere i figurini persi a “Figura e Carton” o i pallini persi a buca.
Ma c’era dell’altro: nel giardino retrostante la costruzione l’acqua usata per il bucato non si gettava, tutt’altro! A partire dalla classica vasca in cemento della lavanderia, approfittando del terreno sabbioso e in pendenza, era stato scavato un canale assai tortuoso che raggiungeva un bacino più ampio, un porto, sul confine della villa di Proja, ora proprietà Vanni dopo essere stato il dancing Jolly Club…dove si ascoltò, e vide letteralmente di straforo, il presentatore Corrado, Jula de Palma e Carla Boni ai loro esordi.
All’inizio del canale ognuno allineava le propria barchetta quindi ribaltando un mastello d’acqua si formava un’ondata di piena che portava con sé le varie imbarcazioni. I fari all’ingresso del porto, in verità due pezzi di canna, rappresentavano il traguardo e chi lo tagliava per primo si assicurava il monte-premi: figurine, pallini di terracotta o monete fuori uso dell’ante-guerra. Rafting ante-litteram.
Un altro gioco che non aveva eguali a Cattolica era il calcio con i tombolini: una specie di Subbuteo. Sotto la finestra dell’ambulatorio di tuo babbo si disegnava col carbone sul pavimento di cemento un campo sul quale si piazzavano i tombolini ognuno dei quali rappresentava un giocatore, ovviamente con tanto di numero e colori sociali. Uno ovviamente era il pallone. Lo spostamento si effettuava col dito medio che partiva a scatto dopo essere stato rilasciato dal pollice. Ogni contendente aveva a disposizione tre tiri consecutivi. Toccando un tombolino avversario senza aver toccato il tombolino-pallone era punizione o rigore. Si arrivò a disputare un vero campionato.
I tombolini potevano anche rappresentare dei ciclisti. Si disegnava per terra una pista, sempre assai complicata, e per il resto le regole erano le stesse della pista che si faceva a spiaggia per i pallini. I tombolini in legno, piatti col numero stampato e non in rilievo, divennero presto introvabili per cui vennero sostituiti con i tappi delle birra. Mi divertivo molto, specialmente dopo aver scoperto gli inchiostri di china, a disegnare le maglie delle squadre sul cartoncino da incastrare nei tappi.
Davanti casa, a calcetto giocavano Destra (tu e Guerrino Signorini) e Sinistra (i compianti Nino Magnani e Agapo Marchini meglio conosciuto come Capòn). Destra e Sinistra in dipendenza delle relative abitazioni su via Dante. Io, troppo piccolo, allora non giocavo. Troppo pericoloso con tutti quei muri e spigoli di aiole! Però spesso avevate ospiti attirati da quella specie di Mirabilandia che era Via Dante 30 e allora giocavate anche tre contro tre o più. Le partite andavano agli 11 e ai 5 finiva il tempo e si cambiava campo. Ricordo che in un’occasione spiegavate a Michelangelo Rossi, sì Bega, questo meccanismo in funzione della scelta del campo (causa il difficile recupero della palla era meglio non calciare verso Mangucc) ma lui tagliò corto dicendo – il campo non importa tanto io i gol li faccio tutti e 11 nel primo tempo!?”.
Il nostro Aldo racconta ancora ma io mi fermo non prima di evocare un’altra immagine di via Dante di quel periodo, quando fu asfaltata in previsione delle corse in motocicletta che si correvano nel periodo pasquale. Le moto passavano proprio davanti a noi al nr. 30, giravano in via Venezia, risalivano via Carducci e dopo il lungomare piegavano verso la piazza del Nettuno e giù di nuovo con la loro scia di olio di ricino che sento ancora nelle narici e con la pagliuzze delle balle protettrici che svolazzavano da una riva all’altra della nostra strada diventata così importante da essere parte di un circuito cittadino.
Dicevo all’inizio che c’era un secondo gruppo affiatato di adolescenti e bambini, forse più numeroso del nostro, coagulato attorno alla canonica su per la costa, che allora era l’unica parrocchia del paese, dal quale eravamo talvolta divisi più dallo spazio che dagli intenti, tanto che nacquero verso la fine degli anni quaranta iniziative congiunte come l’attivazione di una sezione di boy scout, la creazione della squadra di calcio La Superga e, nel decennio successivo, quando eravamo più grandi, il Cineforum. Ma queste sono altre storie.

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