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E’ finita l’era Berlusconi?

Redazione di Redazione
6 Luglio 2004
in L'opinione
Tempo di lettura : 3 minuti necessari
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Silvio Berlusconi (1936-2023)

Silvio Berlusconi (1936-2023)

Ciò ha rappresentato però un cospicuo progresso per il centrosinistra ed è avvenuto a spese di Forza Italia, che ha subito una dura sconfitta, compensata dall’avanzata della nuova Democrazia cristiana, per oggi ancora celata sotto la sigla UdC.
Per oggi, abbiamo detto, giacché Follini pensa già al dopo-Berlusconi, al ritorno al sistema elettorale proporzionale ed alla formazione di un forte soggetto politico moderato e cattolico: la nuova Dc, appunto. Alle europee, perciò, il Triangolo di Prodi è andato bene, ma non ha sfondato. Si è fermato al 31%; non ha raggiunto quel 33% che Fassino sognava, e che avrebbe conquistato se non avesse subito il ricatto dello Sdi, che ha vietato l’ingresso a Di Pietro: l’Italia dei Valori avrebbe aggiunto al Triciclo il 2,1% che gli è venuto a mancare.
Nessun pareggio, invece, nelle amministrative e nei ballottaggi. Su 103 province il centrosinistra, qui tutto unito da Bertinotti a Di Pietro, ne governa oggi 70, ben otto delle quali strappate al centrodestra. E qui la disfatta di Forza Italia è stata un terremoto, con epicentro la provincia di Milano, cuore del berlusconismo. I partiti di governo non hanno più il consenso della maggioranza degli italiani. L’ha voluto il premier, questo risultato, con il suo presenzialismo ormai stucchevole e con la sua insistenza a ripetere “abbiamo rispettato tutti i punti del contratto con gli italiani”, onde poi l’italiano si è detto: “se il contratto è stato rispettato, perché io sto peggio?”.
Berlusconi, a quanto pare, sta arrivando alla frutta. Né potrebbe essere diversamente, per il comandante in capo di un esercito di battitori di mani e di servili esecutori passivi della volontà del capo, dei sottocapi e dei sotto-sottocapi. Forza Italia non poteva dar vita ad una nuova classe dirigente, perché non è un partito. Non è, cioè, quella palestra di addestramento alla politica che può formarsi solo in un partito, con i suoi dibattiti, i suoi congressi, le sue correnti e la sua apertura alla società civile.
Si pensi al caso di Bologna, riconquistata da Cofferati. Qui Forza Italia, sapendo di non poter vincere da sola, aveva trovato un simpatico e popolare macellaio, il Guazzaloca, e nel ’99 aveva tolto il comune alle sinistre.
Poi, però, non si è formata nessuna classe dirigente, ed anche Guazzaloca è divenuto un semplice esecutore di ordini, prima di tutto nella scelta dei collaboratori. La sua non era stata un’autentica lista civica, ma semplicemente una lista berlusconiana con specchietto per le allodole. Se Cofferati, grazie al suo grande carisma, ha stravinto, a battere Guazzaloca sarebbe bastato anche un altro candidato privo di tanto carisma.
Non esistono vere e proprie liste civiche, quando ci sono di mezzo i berlusconiani. Si può anche trovare, in luogo di un macellaio, anche un medico di chiara fama illuso di poter contare come persona, come è avvenuto a Cattolica. Il risultato, però, è sempre il medesimo. Probabilmente i berlusconiani bolognesi avranno anche invidiato i loro colleghi cattolichini, più bravi di loro?
Il discorso su Cattolica non può prescindere da quella che a nostro giudizio è stata un’occasione mancata di sicuro rinnovamento rispetto al pesante cono d’ombra politico rappresentato dalla lobby del precedente sindaco. L’hanno mancata i fautori del rinnovamento, quelli interni ai Ds e quelli esterni, riuniti nella coalizione sottotitolata “Nuovo centrosinistra”, e forti della spontanea adesione della società civile. Non c’è stato, in vista del prevedibile ballottaggio destra-sinistra, il confronto pubblico sul programma e sugli “azzeramenti”, non c’è stata la trattativa alla luce del sole, nella “ateniese” agorà, fra le due coalizioni di centrosinistra. Resta l’auspicio che il suddetto rinnovamento, non codificato in sede elettorale, possa essere realizzato successivamente.
Su un punto però tutta Cattolica, destra, centro e sinistra, ha dato una lezione a certe situazioni con termini di trasformismo giustamente stigmatizzate dalla “Piazza”: sull’assenza di quelli che i politologi chiamano “i salti della quaglia”.

di Alessandro Roveri*

*Professore di Storia contemporanea all’Università di Ferrara

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