[img align=left]http://www.lapiazza.rn.it/gennaio04/stazione_cattolica.jpg[/img]
– Abbiamo raccontato in altra occasione come i giovani della mia generazione, orientati al proseguimento degli studi dopo le scuole medie, dovevano recarsi in treno fuori sede: a Rimini la quasi totalità o a Pesaro una sparuta minoranza. I rallentamenti in stazione per salire al volo sul vagone, il passaggio nella strettoia a binario unico sul ponte del Conca, le mutilazioni conseguenti sono stati gli eventi caratterizzanti unicamente il primo anno delle trasferte. Ne abbiamo già parlato.
La normalizzazione ferroviaria, si fa per dire, avvenne nell’anno scolastico seguente, il 1947, e pertanto può essere interessante rivisitare le vicende dei nostri viaggi che accomunavano tutto il gruppo degli studenti cattolichini pendolari, sia frequentanti i licei, sia gli istituti professionali.
La partenza da Cattolica era alle 7,30 dal terzo binario e, non essendoci il sottopassaggio, tutte le due banchine erano stracolme di giovani assonnati che all’arrivo del treno si accalcavano per salire sulle vetture. C’erano sempre i ritardatari che arrivavano di corsa dal viale della stazione e saltellando attraversavano i binari sotto gli sguardi truci del capostazione con la paletta ed il fischio già pronti. Poi c’erano anche quelli fuori legge, che venivano in fila indiana lungo la pericolosa massicciata, risalita dal terrapieno in fondo a via Ferrara o dal ponte di ferro sulla nazionale. In quel primo anno c’erano prevalentemente i vagoni “bestiame” con le panche inchiodate al centro e qualche vettura vetusta con i sedili di legno appaiati e contrapposti e con tanti sportelli.
Le vetture con gli scompartimenti da sei posti e le due porte alle estremità del vagone comparvero dopo qualche anno ed il trasferimento diventò così più umano, anzi, addirittura divertente perché consentiva aggregazioni di amici e amiche, favorendo interessanti iniziative.
Andava di moda in quel periodo una trasmissione radiofonica tardopomeridiana che si chiamava “Roma chiama Londra” e vedeva contrapposta una squadra di liceali romani ad una di liceali londinesi su temi di cultura e di attualità. Era presentata da un distinto arbitro dalla pronuncia britannica che faceva le domande e teneva la classifica.
Ecco quindi l’idea catturata e la nostra sfida “Cattolica chiama Riccione” che in realtà era una gara fra liceo classico e liceo scientifico con le amiche che salivano dopo di noi, a cui tenevamo il posto, per fare la gara regolata da un gentile e disponibile bancario. Vincevano sempre loro, le riccionesi classiche, e perdevamo sempre noi, i cattolichini scientifici, ma la gara andò avanti fino agli ultimi anni del liceo e si concretizzò in amicizie che durano tuttora e perfino approdò in un felice e solido matrimonio, nato da una festa collegata fortunosamente a quegli incontri.
In questa multiforme e varia umanità c’era di tutto: i vispi che abbiamo già visto, i pragmatici che si preparavano alle interrogazioni, i dormienti che approfittavano per riprendere il sonno interrotto, i sognatori che col capo appoggiato al finestrino vagavano per i campi, gli amanti del mare che si accontentavano dello scorrere della sottile lontana linea azzurra, i furbi che già organizzavano la mattinata extra scolastica (il cosiddetto “puffi”) magari proprio a spiaggia o al bigliardo del caffè di Raboni, gli sportivi che leggevano la Gazzetta dello Sport del giorno prima, i politici che si nutrivano con le edizioni Einaudi dalla copertina rossa, gli “sgolvaniti” che avevano già fatto fuori il maritozzo di metà mattina, i vagabondi che si chiedevano perché si trovavano lì e cosa avevano a che fare loro con la scuola, i cacciatori che puntavano le prede e organizzavano le strategie dell’insidia verso le belle ragazze che riassettavano il frettoloso trucco mattutino.
Ce n’era una di Gabicce che sembrava una dea: mora, bella, statuaria; infrangeva cuori e alimentava desideri mattutini e incubi notturni. Come e dove sarà finita?
All’arrivo a Rimini le diverse centinaia di giovani scesi dai treni, provenienti anche dai paesi sulla via Emilia, Savignano, Santarcangelo, Santa Giustina e da quelli sull’Adriatica, Cesenatico, Bellaria, Viserba, occupavano tutto il vialone e si tripartivano nella piazza Tre Martiri: a sinistra per il liceo classico, diritto per il liceo scientifico e a destra per gli istituti per geometri e ragionieri. Arrivati in quella piazza c’erano proprio di fronte le vetrine delle “Quattro Stagioni” che affascinavano molti di noi perché, avvicinandoci camminando lentamente, ci specchiavamo e ci ammiravamo. Non guardavamo i manichini o i capi di abbigliamento esposti, no, guardavamo compiaciuti la nostra immagine riflessa che per uno strano gioco di luci ci rendeva più alti. E’ così anche oggi, provare per credere alle otto del mattino.
C’erano anche i meno vanesi che facevano un passaggio, a scopo assicurativo, nella vicina cappellina dedicata a sant’Antonio, ma dove operava anche san Giuseppe da Copertino, noto potente patrono nazionale degli studenti bisognosi.
Il ritorno era differenziato perché le scuole finivano in orari diversi, comunque si arrivava a Cattolica dopo le tre del pomeriggio. Se invece si doveva rimanere a Rimini per le lezioni di ginnastica che si facevano allo stadio, c’era il problema del mangiare: qualcuno portava da casa, qualcun altro andava in un bar ed i più temerari sceglievano la mensa dei ferrovieri.
Era un locale di fianco alla stazione con un unico stanzone, fumoso, rumoroso, con dei tavoloni e delle panche dove si consumava un pasto caldo estratto da pentoloni fumanti, quello con i solidi e quello con i liquidi. Per la mia generazione “la magneda dai firuvier” era uno stereotipo per definire la più bassa categoria della ristorazione collettiva, anche se ripensandoci ora non credo si potesse pretendere di più per cinquanta lire.
Di quel primo periodo liceale, quando si tornava a casa col treno delle tre, ho in mente una sequenza cinematografica per la nitidezza del mio ricordo. Come è noto i binari nel tratto fra Miramare e Riccione costeggiavano rasentando i giardini di villette monofamiliari (oggi c’è il cemento degli alberghi), bene, all’inizio di un giugno di una calda estate del ’48 in uno di quei cortili si materializzava ogni giorno una stupenda fanciulla in un ridotto costume da bagno, sdraiata su un lettino sotto un ombrellone. A noi sembrava che quotidianamente ci fosse uno spicchio di pelle scoperta in più. Forse era solo la nostra immaginazione.
Comunque sia, sento ancora forte e chiaro l’urlo beluino che proveniva dai vagoni di testa, tutti noi fuori a mezzo busto dai finestrini e tutti noi sporgenti dalla sbarra dei carri bestiame. L’urlo si propagava per tutta la lunghezza del treno e si perdeva verso la coda come il lamento di un animale in calore fra lo sferragliare delle ruote, l’abbaiare dei cani e lo svolazzare delle cartacce.
La scena si ripeteva ogni giorno e ogni giorno, nell’auspicio collettivo, ci si attendeva uno spogliarello che non avvenne mai. Qualcuno sentimentale gettava dei fiori. Qualcuno prosaico lanciava lettere con un sasso dentro. La fanciulla comunque ci marciava perché salutava con la manina e sorrideva. E poi un giorno, improvvisamente scomparve. A tutti noi, orfani sgomenti non era rimasto che fare ipotesi: le ferie finite, il ritorno del marito, la proibizione della madre, l’intervento del prete, dei vigili, dei carabinieri, del capotreno.
Ora che scrivo questa rivisitazione, faccio anche due conti sull’età della fanciulla che allora doveva essere attorno ai 22-24 anni, quindi oggi dovrebbe averne 76-78 e mi chiedo se ricorderà ora o avrà mai ricordato il lontano passaggio di un treno urlante, carico di spasimanti in ebollizione, in una calda estate del lontano 1948.
Come finale, vorrei riferire ai miei gentili lettori che poco tempo fa, nel corso di una rimpatriata con gli amici pendolari dell’epoca, ho rievocato l’episodio, trovandone il riscontro che mi attendevo con qualche particolare aggiuntivo, e addirittura anche con la sorpresa che qualcuno si è vantato di conoscere nome, cognome, indirizzo, nonché il marito, della misteriosa e fugace nostra amata apparizione.
Era un millantato credito a cui però non ho voluto dare ascolto per non rovinare con la realtà la magia della leggenda.
Mi piace finire il resoconto con una battuta di un film di John Ford che recita così: “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”.
Forse vale anche per Cattolica.
di Guido Paolucci