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Cattolica-Gabicce portocanale, metà anni ’60. Equipaggio motopeschereccio “Valbruna” (pesca alla volante). “Paron” Sesto Pratelli. Si riconosce da destra: Mario Prioli “Pipen”, Eugenio Morini, Filiberto Vanzolini “Marola”, Giuseppe Biondi, Sesto Cola “Cisten”, Marino Morini “Maren dal Pipon”, Ezio Primavera “Ezio d’Nasen”, Lorenzi, Giovanni Cecchini “Gianen d’Bigiola”.(Archivio Fotografico Centro Culturale Polivalente di Cattolica)
– Nella stagione invernale trovandomi disoccupato, mi sono imbarcato su un motopeschereccio a Porto San Giorgio. Avevamo uno speciale permesso rilasciato dalla guardia costiera croata, pagando centomila lire al mese, cioè mille lire al cavallo secondo la potenza del motore; il nostro era di cento cavalli. Con questa autorizzazione riuscivamo a pescare nel mare territoriale della Croazia, che, approfittando, ci spingevamo fino a cinquecento metri dalla costa. Dovevamo rispettare una zona di pesca, ma noi specialmente con il brutto tempo, andavamo anche fuori zona, poiché i motoscafi della guardia costiera croata erano piccoli e col brutto tempo non uscivano in mare.
Un giorno ci siamo trovati a pescare con mare burrascoso e improvvisamente si bloccò la bussola, così urtammo contro un isolotto (peschiera) che si trovava a tre miglia a sud del “Taiero”. L’isola nella sua parte centrale era alta più di trenta metri. Il “paròn” si accorse subito del pericolo e ha urlato, ma noi eravamo tutti a prua a lavorare per mettere a posto le reti e non abbiamo sentito nulla. Era di notte e la barca urtò violentemente contro lo scoglio procurandosi un notevole squarcio, per cui riuscì a stare a galla solo per un quarto d’ora. Noi immediatamente abbiamo preso terra sulla spiaggia dell’isola e non siamo riusciti neanche a vedere quando la barca è affondata. Siamo rimasti sullo scoglio per ottantadue ore dal martedì al sabato. Per riuscire ad andare sulla spiaggia ci siamo gettati in mare e riuscimmo quindi a saltare sullo scoglio, il capopesca si era gettato anche lui in mare ma accidentalmente un piede gli si impigliò nello “strallo” di prua e rimase così a penzoloni sullo scoglio per due ore in quelle condizioni. L’abbiamo tirato su usando i frammenti dei nostri vestiti come corda di salvataggio.
Si ammalò di polmonite poiché faceva molto freddo (era gennaio) ed eravamo senza vestiti per cambiarci. Accendemmo un fuoco con dei rami trovati sulla spiaggia, servendoci della scatola dei cerini del “paròn” che non si era bagnato e salvò anche due pacchetti di sigarette. Nelle vicinanze avvistammo due persone a bordo di una “lancia” che possedevano un orto sulla terraferma, erano pastori che portavano il loro gregge di pecore a brucare sugli scogli dove vi erano dei punti erbosi. Scoprimmo in seguito che erano padre e figlio e ogni due, tre giorni cambiavano posizione con le loro pecore anche per cercare di trovare più erba. Finito il lavoro andavano a casa con il gregge, ritornando poi dopo sei mesi. Appena li scorgemmo, ci mettemmo a urlare invocando il loro aiuto, ma questi inizialmente si mostrarono restii, forse per paura, fortunatamente il figlio parlava italiano e alla fine si decisero a soccorrerci.
Ci portarono fino al “Taiero”, a ridosso della costa per ripararsi dai marosi, vi era un motopeschereccio fanese il “Maria Trapani” lungo quindici/sedici metri con motore Ansaldo da 110 cv. Ci portarono al comando della guardia costiera croata e finimmo in prigione per tre giorni in cella d’isolamento, poiché ci scambiarono per contrabbandieri e che avevamo intenzionalmente affondato la barca. Non avendo da diversi giorni nostre notizie, gli armatori di Porto San Giorgio telefonarono al consolato di Zagabria capoluogo regionale e così il terzo giorno riuscimmo ad avere del pane. Il quarto giorno siamo stati scarcerati e tornammo in Italia a bordo del motopeschereccio fanese. L’anno successivo l’armatore di Porto San Giorgio fece un nuovo scafo e sono ritornato in mare nuovamente su questa barca che faceva base in Ancona, in seguito fu comprata da un armatore anconetano che acquistò anche un motopeschereccio di Cattolica di proprietà del dott. Rossi il “Marta”. Su questa nuova barca anconetana facemmo la pesca d’altura e si veniva a terra ogni quattro, cinque giorni, ci si spingeva oltre Pescara impiegando diciotto, venti ore prima di calare la rete; si stava un mese a bordo e quattro giorni a casa. La domenica e i giorni di festa sempre in mare. Con il motopeschereccio “Tasso” prima di andare alla pesca abbiamo fatto il servizio della raccolta delle munizioni che erano depositate in fondo al mare con rete a strascico prima a Manfredonia, in cui sono stato trentacinque giorni sempre in mare senza venire mai a casa, poi andammo a Molfetta dove prendemmo una mina nella rete che la tenemmo immobile con i cavi d’acciaio tesi sul fondale sempre con il pericolo che esplodesse per quattro, cinque giorni ad una distanza di quattrocento, cinquecento metri dalla costa per ordine delle autorità marittime fino a che arrivarono gli artificieri da Bari che la fecero esplodere.
Come risarcimento ci diedero novanta chilogrammi di piombo per la perdita della rete (sfogliara), dopodiché tornai a casa. Nel 1967 insieme a mio fratello Rino comprammo una lancia per la pesca delle cozze e dei cefali, con le nostre lance andammo a pescare fino a Falconara insieme ai gabiccesi Dante Trebbi, Guerrino Tonti “Ghirin”, Gino Magi “Sociali”. C’era anche Lino Bertuccioli “Barbarèl” che andava a rigatini e a seppie, in seguito anch’io e mio fratello facemmo quel tipo di pesca, si guadagnava discretamente ma il lavoro era notevole. Nel 1979 andai in mare a lampara a bordo del motopeschereccio “Eugenio Pozzi” con il valente capitano Virgilio Pozzi.