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Sviluppo economico ed etica del lavoro

Redazione di Redazione
12 Aprile 2005
in L'opinione
Tempo di lettura : 2 minuti necessari
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Il tema è interessante quant’altri mai, soprattutto in un momento come questo. E ? sì, direi che partendo da quell’opera di storia economica e di storia religiosa di Max Weber – un gigante del secolo XX, anche se molti pigmei lo contestano – cercare di capire meglio il nostro futuro è possibile. Ma non ne viene fuori una prognosi gran che fausta per noi italiani. Vediamo perché.
La grande rivoluzione storiografica di Weber è consistita nell’avere egli affiancato (qualcuno dice: contrapposto, ma secondo me non è così) alla altrettanto grande rivoluzione storiografica di Marx l’indicazione della presenza di un fattore religioso nelle origini del capitalismo moderno.
Dobbiamo partire dal terribile concetto della predestinazione propria del calvinismo, ossia delle Chiese riformate (come l’ugonotta francese, la puritana inglese, la presbiteriana scozzese ecc.), trapiantatesi poi nelle colonie americane del Regno Unito (divenute Stati Uniti d’America). Predestinazione: ossia si nasce dannati, i più (a causa del peccato originale), oppure eletti, i meno, salvati dalla misericordia della grazia divina. Come saperlo o intuirlo?
Alla ricerca di qualche prova della grazia divina, i predicatori calvinisti – dimostrò Weber – finirono per trovarne una, decisiva, nella vocazione-professione economica–capitalistica e nel suo successo.
Vocazione-professione, due parole in tedesco e in inglese racchiuse in un unico vocabolo: rispettivamente Beruf e calling. L’assenza di un simile vocabolo religioso (vocazione) e sociale (professione) dalle lingue cattoliche (lo spagnolo, il francese, l’italiano) non è casuale, è un fatto storico (così come fatto storico è sempre la lingua).
Come mai noi italiani non abbiamo quella parola straordinaria dal doppio significato? Gli è che la nostra Chiesa non ha mai fatto propria quella concezione religiosa del lavoro (e del capitalismo) che appartiene alle Chiese riformate ed è entrata nelle origini del capitalismo inglese, di quello olandese, di quello statunitense. Quei capitalisti sentivano il dovere religioso di investire i loro profitti in creazione di nuovi posti di lavoro, in termini cioè di doverosa crescita della felicità sociale, a differenza dei capitalisti cattolici, liberi di sperperare nel lusso e nei godimenti senza alcun ostacolo religioso (il che non significa che non vi siano state le eccezioni). Il confessore cattolico non chiede al capitalista quale sia stato l’uso dei suoi guadagni. Nel mondo riformato il confessore non c’è, perché non esistono né sacerdoti né sacramenti che non siano il battesimo e l’eucaristia. Ma non ce n’è bisogno. Il capitalista puritano è solo, con la sua coscienza e con il senso della grazia divina. Sa che non può nemmeno una volta commettere falso in bilancio. Il farlo sarebbe indizio di assenza della grazia nella sua vita. E non c’è una confessione auricolare, che gli permetta di ottenere il perdono divino. Di qui derivano, credo, anche il grande selfcontrol degli anglosassoni, e il loro understatement.
La conclusione, dicevo, non è fausta, per noi italiani. I riflessi odierni delle due diverse tradizioni sono sotto i nostri occhi. Qualcuno (la Enron) sgarra nel sistema americano? Ecco che il falso in bilancio viene punito da una legge più severa, fino ad oltre vent’anni di reclusione. Quel capitalismo vuole risanarsi e garantirsi un cospicuo sviluppo economico. Ci riuscirà.
Qualcuno (Cirio, Parmalat) sgarra da noi? Accade l’esatto opposto: il falso in bilancio viene praticamente depenalizzato! Non c’è una gran voglia di risanarsi, e un capitalismo non sano non può divenire competitivo nella gara alla conquista dei mercati. Così son fatti gli uomini che oggi ci governano. Come trarne fausti auspici, se –quanto meno – non li mandiamo a casa?

*Professore di Storia contemporanea all’università di Ferrara

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